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Emirati, terra di monaci cristiani

Gioia Reffo
24 gennaio 2011
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Emirati, terra di monaci cristiani
Una panoramica del sito archeologico cristiano sullisola di Sir Bani Yas.

È ormai aperto al pubblico, sull’isola di Sir Bani Yas, negli Emirati Arabi Uniti, un sito archeologico che rappresenta un'importante testimonianza della presenza cristiana sulle sponde del Golfo Arabico. Nel corso di scavi iniziati due decenni fa, gli archeologi hanno riportato alla luce un monastero bizantino del VII secolo, in cui vivevano dai 30 ai 40 monaci.


(Milano) – Quando vent’anni fa cominciarono gli scavi sull’isola di Sir Bani Yas (Emirati Arabi Uniti) nessuno immaginava di essere di fronte a una delle più importanti testimonianze della presenza cristiana sulle sponde del Golfo Arabico. Su questo lembo di terra a metà strada tra Abu Dhabi e Doha gli archeologi hanno infatti riportato alla luce un monastero risalente al 600 d. C. in cui vivevano dai 30 ai 40 monaci. Una riprova del fatto che il cristianesimo nella penisola araba ha radici profonde, capaci di unire come un ponte, allora come oggi, il continente indiano e il Medio Oriente.

«Il sito dimostra che il cristianesimo penetrò ben oltre quello che abbiamo pensato finora – spiega l’archeologo Joseph Elders, direttore degli scavi –. Non abbiamo molti altri monasteri risalenti al periodo bizantino». Il complesso, scoperto a partire dal 1992 e ora aperto al pubblico, comprendeva diversi edifici: una chiesa, una cappella e una torre. Un insediamento stabile insomma, secondo gli esperti tenuto in vita dal flusso di pellegrini che percorrevano le ricche rotte commerciali tra la penisola araba e l’India. Ad attirare i credenti sull’isola però era la presenza della tomba di un santo, probabilmente il fondatore stesso. A lui gli studiosi riconducono l’unico corpo trovato, attorno al quale è stata poi edificata la chiesa. Accanto è stata rinvenuta una camera dove i visitatori potevano lasciare le proprie offerte, prova che il monastero era un luogo frequentato in continuazione. Tra i resti risalenti a 1.400 anni fa sono state anche trovate camere decorate con stucchi a forma di croci mentre nella stanza principale che ospitava i monaci c’era una nicchia per l’acqua e un braciere per la cottura del cibo.

Lo stupore degli archeologi davanti a questa scoperta non deve far dimenticare che la penisola araba, considerata oggi la culla dell’islam, fu prima terra cristiana. Dalla Siria i credenti solcarono le vie carovaniere diffondendo il loro credo tra le tribù che incontrarono costeggiando il Mar Rosso. Un esempio fu la città di Najran dove visse la più numerosa comunità cristiana dell’intera Arabia, circa 20 mila persone, prima della cacciata da parte dei musulmani. Pochi chilometri più a sud, a Sanaa, l’odierna capitale dello Yemen, fu il re cristiano Abraha a costruire la cattedrale. Come racconta la sura 105 del Corano, detta anche dell’Elefante, Abraha condusse un attacco alla Mecca nel 570, anno di nascita di Maometto, allo scopo di distruggere la Ka’ba e indirizzare i pellegrini alla chiesa monumentale di Sanaa. Più tardi, dopo che l’islam penetrò nello Yemen, attorno al 630, il cristianesimo scomparve a poco a poco. Molti cristiani si trasferirono in Mesopotamia, altri in quelli che oggi sono gli Emirati Arabi dove il culto di Cristo si diffuse già tra gli anni 50 e 350. Con molta probabilità la comunità che visse a Sir Bani Yas è da ricondurre alla Chiesa nestoriana. Essa si rifaceva alla dottrina di Nestorio, patriarca di Costantinopoli vissuto nel V secolo, che in Cristo affermava l’unione di due nature (l’umana e la divina) e due persone. Il nestorianesimo fu condannato dal concilio di Calcedonia, ma, anche come eresia, si diffuse in Persia e da lì in India e Cina grazie alle navi che solcavano il mar Arabico.

L’aspetto più interessante della scoperta è che il monastero restò attivo fino al 750 quando ormai l’islam si era diffuso a macchia d’olio nella penisola araba fino a raggiungere gli stati del Golfo grazie alla dinastia degli Omayyadi. «È una testimonianza dell’apertura mentale del tempo», dice Joseph Elders.

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