Nell’agosto scorso il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal, ha creato una cappellania per la cura pastorale dei lavoratori migranti indiani che si trovano in diocesi. La cappellania è affidata ad alcuni frati minori. Abbiamo chiesto al principale responsabile, fra Jayaseellan Pitchaimuthu, di illustrarci le peculiarità di questa piccola, e poco conosciuta, comunità.
(Gerusalemme) – Nell’agosto scorso il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal, ha creato una cappellania per la cura pastorale dei lavoratori migranti indiani che si trovano in diocesi. La cappellania è affidata ad alcuni frati minori anch’essi indiani. Abbiamo chiesto al principale responsabile, fra Jayaseellan Pitchaimuthu (39 anni, anch’egli indiano, del Tamil Nadu), di illustrarci le peculiarità di questa piccola, e poco conosciuta, comunità.
Padre Jayaseellan, vuole raccontarci qualcosa dei cattolici indiani che vivono in Israele?
I primi migranti cattolici indiani sono arrivati in Israele cinque anni fa, alla ricerca di migliori opportunità occupazionali. Da allora il loro numero è andato crescendo. Oggi i lavoratori indiani in questo Paese sono circa 5 mila, 3 o 4 mila dei quali professano la fede cattolica. Provengono per lo più dagli Stati meridionali – Karnataka, Kerala, Andhra Pradesh, Goa e Tamil Nadu – ma anche da Maharastra e Gujarat. Appena arrivati, imparano quel minimo di ebraico e di arabo che consenta loro di intavolare una conversazione. Alcuni arrivano a parlare l’ebraico anche molto bene. La maggior parte di queste persone trovano lavoro come badanti, con un permesso di soggiorno temporaneo valido 4 o 5 anni. Una grossa comunità di indiani cattolici, oltre duemila persone, risiede nelle principali città di Tel Aviv, Herzliya, Rameh, Tiberias e Haifa, dove lavorano come collaboratori domestici.
In Israele vivono all’incirca anche 70 mila ebrei di origini indiane, che godono naturalmente di piena cittadinanza. Il maggior flusso della loro ondata migratoria in Israele avvenne nei decenni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Meno di dieci anni fa hanno cominciato a stabilirsi qui anche uomini d’affari induisti e jainisti. Gli indiani, coinvolti nel commercio dei diamanti, giocano la parte del leone nel far primeggiare Israele nel mercato di quei preziosi minerali.
Come vive la comunità cattolica indiana in Terra Santa? A quali difficoltà deve far fronte e quali sono i motivi di preoccupazione?
Parliamo di una benedizione ma insieme anche di una grande sfida. Per molti immigrati cattolici indiani essere qui è come un sogno che diventa realtà: trovare un lavoro nella terra del nostro Salvatore, nato anch’egli da una famiglia di migranti. È una grazia potersi procurare i mezzi di sussistenza nella terra promessa da Dio ad Abramo, nostro padre nella fede. Ma insieme è certamente anche difficile vivere qui, in una realtà ben diversa da quella che avevano immaginato. Fare il badante richiede spesso di vegliare sulle persone per tutta la notte. Talune famiglie non garantiscono ai loro dipendenti neppure il cibo e il turno di riposo sufficienti. Le persone hanno temperamenti diversi e non sono sempre gentili nei riguardi degli stranieri e degli estranei. E poi ci sono le preoccupazioni e il pensiero costante per le famiglie rimaste a casa: i coniugi, i figli e i genitori. In molti casi a tutto ciò si aggiunge il cruccio di dover ripagare ingenti debiti contratti in patria. Infine c’è la paura delle agenzie interinali esose che pretendono provvigioni esorbitanti, dei datori di lavoro spietati e dei controlli del dipartimento Immigrazione della polizia.
Cosa conduce queste persone proprio in Terra Santa?
Io stesso ho rivolto questa domanda a numerose persone. Invariabilmente la risposta è che la loro fede è intimamente correlata a questa terra e così hanno optato per cercare lavoro in Israele. Un’altra ragione è che molti di loro sono lavoratori privi di specializzazione. Fare il badante non richiede grandi qualifiche o abilità tecniche. Lo Stato di Israele offre inoltre una retribuzione migliore per i badanti, molto più altra che nel nostro Paese.
Ci sono altre professioni accanto a quella del badante?
Qui abbiamo anche un certo numero di scienziati ed ingegneri informatici indiani. Ma si fermano per periodi di tempo limitati. L’unica vera opportunità di lavoro per gli stranieri è quella del badante: prendersi cura dei malati, degli anziani, di chi in una famiglia è allettato o ha problemi fisici o psichici.
Quanto sono assimilati i membri della sua comunità tra i musulmani, gli arabi cristiani e gli ebrei?
Come nazione, l’India ha buone relazioni tanto con Israele quanto con la Palestina. Le democrazia laica indiana rispetta ogni religione, cultura, lingua e popolo. Gli indiani si aspettano di trovare lo stesso atteggiamento quando si recano in altre nazioni. Ma in Israele vedono un approccio differente. Degli ebrei israeliani sono vere e proprie gemme: generosi, amichevoli e pronti a offrire un aiuto. Incoraggiano i lavoratori cristiani ad andare in chiesa durante lo shabbath o in altre festività. Parecchi di loro sono molto curiosi su Gesù, la Bibbia, la Chiesa cattolica, la nostra fede e le pratiche religiose. Altre famiglie ebree apprezzano i loro collaboratori in quanto indiani, ma non in quanto cristiani. Non consentono che indossino una croce o che leggano la Bibbia, recitino il rosario o pratichino altre devozioni. Qualcuno mi ha raccontato che non avendo il permesso di pregare in casa, per farlo si chiude in bagno dove nessuno può vederlo. La maggior parte dei nostri fedeli lavora in case di israeliani, per lo più ebrei sia laici sia religiosi, che parlano ebraico o inglese. Molto raramente entrano in contatto con la comunità araba, ma incontrano gli arabi sui mezzi pubblici o nei negozi. Alcuni musulmani sono amichevoli nei loro confronti in quanto indiani, ma apprezzano meno il fatto che siano anche cristiani. Tra di noi c’è anche chi è scioccato dal comportamento rude dei commercianti musulmani lungo la Via Dolorosa, a Gerusalemme. Ci sono mercanti che cercano di approfittarsi dei lavoratori stranieri, di spillare loro denaro ed imbrogliarli.
In passato i nostri migranti cattolici non hanno avuto molte opportunità di entrare in contatto con le comunità cristiane della Terra Santa, anche se quando vanno nelle parrocchie di Gerusalemme, Jaffa, Betlemme ed Haifa hanno grandi opportunità di incontrare i cristiani locali. Incontri questi che si sono rivelati amichevoli, incoraggianti e arricchenti. Spesso la profonda fede religiosa della comunità cattolica indiana suscita ammirazione tra i cristiani di qui. La maggior parte degli ebrei e degli arabi, così come parecchi cristiani, sono abituati a pensare all’India come a un Paese induista. Si sorprendono nell’apprendere che il cristianesimo raggiunse l’India già nell’anno 52, introdotto dall’apostolo san Tommaso e che oggi i cristiani nel Paese sono circa 30 milioni.
Come mai ora il patriarcato latino ha deciso di creare una cappellania?
Quattro anni fa prestavo servizio nella parrocchia francescana di Sant’Antonio, a Jaffa, e notai che alcuni indiani partecipavano regolarmente alle Messe del sabato. Tramite loro venni a sapere della larga presenza di migranti cattolici indiani che lavorano in Israele. Facendo qualche visita qua e là venni a conoscenza delle loro condizioni di lavoratori, stranieri, sfruttati e manipolati da agenti di intermediazione locali e indiani. Inoltre non sapevano nulla della presenza di una chiesa cattolica in città. Ricevevano l’Eucaristia solo a distanza di mesi, come a Natale, a Pasqua o nelle più importanti feste mariane da preti venuti apposta dall’India. Anche dopo esser stato trasferito alla basilica del Santo Sepolcro ho continuato a servire le loro necessità. Lo scorso anno mi ha affiancato un altro francescano indiano. Fin lì tutto era fatto in via informale con il consenso del Custode di Terra Santa e dei parroci. Poi abbiamo deciso di chiedere all’arcivescovo Fouad Twal di erigere in seno al patriarcato latino di Gerusalemme una cappellania per i migranti cattolici indiani e così è stato. Siamo grati al patriarca e al Custode per la loro attenzione nei confronti della nostra comunità.
Come continuerà il suo coinvolgimento in questa nuova iniziativa pastorale?
Considero questa una vera e propria missione, un’esperienza di evangelizzazione. Sono uno che si prende cura di chi a sua volta si prende cura di altri. Come un buon pastore assicuro ai fedeli le mie preghiere, li ascolto e faccio loro spazio nel mio cuore, nel mio tempo, nella mente, così che possiamo costruire una comunità vibrante nel vivere la fede e dare testimonianza insieme con le comunità cristiane locali della Terra Santa e la Chiesa universale. Ricordo sempre alla mia gente di non trascurare il benessere della loro anima mentre cercano quello materiale. Lavorando per lo più in famiglie ebree (laiche o religiose), attraverso un servizio generoso, affettuoso e gentile ai malati, gli allettati e a coloro che soffrono di disagio psichico o fisico, essi testimoniano la fede cristiana. Molti ebrei fanno la conoscenza di Gesù, del Vangelo e della nostra fede proprio attraverso questi lavoratori migranti. Ci sono ebrei che chiedono di pregare per loro quando sono in difficoltà o ammalati. E parecchi migranti indiani offrono Messe per il benessere dei loro datori di lavoro o ci chiedono di pregare per qualcuno che è morto. Credo che questa sia vera evangelizzazione. È un dialogo costruttivo e arricchente e una relazione tra i credenti di due grandi fedi. Molti lavoratori indiani parlano anche un ebraico fluente e hanno dimestichezza con le pratiche religiose del giudaismo. Servire i migranti indiani in Terra Santa dà gioia e offre anche l’opportunità di costruire un dialogo tra fedi, popoli e culture.