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Il senso del martirio

Simone Esposito
19 novembre 2010
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Il regista Xavier Beauvois dedica il suo ultimo film all’eccidio dei sette monaci cistercensi dell’Atlas, in Algeria, rapiti e uccisi nel 1996 da terroristi islamici. La narrazione della pellicola è piana, pulita e senza fronzoli. La sua forza è nella profondità degli sguardi dei monaci, indagati con insistenza dalla macchina da presa, e nelle parole di fede e di speranza che ci regala l’ottima sceneggiatura.


«Perché morire martiri?», si chiede Christophe. «Per diventare eroi? Per dimostrare che siamo migliori degli altri?». No, risponde Christian: «Se la morte ci prenderà, sarà malgrado noi. E si può arrivare a morire per amore, per fedeltà».

È uno degli scambi più intensi di Uomini di Dio, la pellicola di Xavier Beauvois sull’eccidio dei sette monaci cistercensi dell’Atlas, in Algeria, rapiti e uccisi nel 1996 durante l’ondata terroristica dei fondamentalisti del Gruppo islamico armato (Gia).

Vincitore del Gran premio della giuria a Cannes e sorprendentemente campione d’incassi in Francia, il film racconta la storia del priore padre Christian (l’intenso Lambert Wilson) e dei suoi otto confratelli, membri della comunità trappista di Tibhirine, nella regione dell’Atlas. Una presenza antica e amatissima dagli abitanti musulmani del villaggio, con i quali i monaci convivono in una perfetta integrazione fino a quando in Algeria non esplode la violenza fanatica e ad essere minacciati (e uccisi) dai terroristi sono innanzitutto gli stranieri e i cristiani, ma anche i musulmani non violenti e quegli imam che accusano i fondamentalisti di non aver nemmeno letto il Corano.

Davanti alle prime gole tagliate e alle pressioni del governo, ai monaci è chiesto di scegliere: la militarizzazione del monastero o l’espatrio. Il priore non si piega e rifiuta entrambe le cose: la comunità resterà libera e aperta come sempre. Una decisione combattuta, non immediatamente condivisa da tutti i monaci (è qui che avviene la drammatica discussione riportata prima), ma che finirà per diventare esplicita e radicale scelta evangelica. I monaci accettano il pericolo ma restano «agnelli in mezzo ai lupi», avversano fino alla fine la morte violenta ma, quando questo diventa l’unico modo per sfuggirle, non rinunciano alla loro vocazione e le vanno incontro. Fino al martirio di sette di loro.

La costruzione narrativa di Uomini di Dio ricorda la giornata monastica, scandita dalla Liturgia delle Ore e dal lavoro: si alternano, con un ritmo quasi sinusoidale, le scene della vita quotidiana, fatta di scambio con il popolo algerino, di fatica, di rumore e anche di violenza, con i momenti di preghiera, col canto corale del Salterio, con l’invocazione della pace anche attraverso le sure del Corano. Un salire e uno scendere costanti che quasi disegnano quel ponte tra cielo e terra che è al cuore della millenaria tradizione monastica.

Il racconto che Beauvois fa della vicenda di Tibhirine è piano, pulito e senza fronzoli: la sua forza è nella profondità degli sguardi dei monaci, indagati con insistenza dalla macchina da presa, e nelle parole di fede e di speranza che ci regala l’ottima sceneggiatura (c’è persino una citazione esplicita di un altro grande monaco del deserto, fratel Carlo Carretto) e che sfuggono abilmente alla retorica (non era facile). Morendo, scrive alla fine padre Christian nel suo testamento spirituale, «sarà soddisfatta la mia lancinante curiosità: di vedere i fratelli islamici con gli occhi di Dio». Di questo parla il film, con levità e impegno: della vita e della morte, della fede gioiosa e di quella amara e silenziosa.

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