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Viaggio nella Striscia di Gaza, a colloquio con i due preti cattolici argentini che guidano la parrocchia latina.

Gaza, cercatori di speranza

Michela Perathoner
22 novembre 2010
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Gaza, cercatori di speranza
Piccoli allievi di una delle scuole cattoliche di Gaza. (foto M. Perathoner)

Sono la prima cosa che un visitatore nota muovendosi verso sud, percorrendo quella striscia costiera di circa 40 chilometri: gli edifici distrutti durante l’ultimo conflitto, lasciati lì, ad ogni angolo della strada, giardini pubblici, scuole, case, ospedali. Solo una parte dei danni alle infrastrutture civili, e in particolare alle strade bombardate durante l’Operazione Piombo fuso condotta a cavallo del 2008/2009 da Israele, è stata riparata. La ricostruzione non procede anche a causa delle restrizioni all’introduzione di materiali da costruzione; i black out elettrici, poi, sono all’ordine del giorno, così come le frequenti interruzioni della fornitura d’acqua. Il blocco israeliano che ebbe inizio nel giugno del 2007 a seguito della presa di potere nella striscia di Gaza da parte di Hamas, ha avuto come conseguenza un improvviso aumento della povertà: l’economia è a terra e il tasso di disoccupazione estremamente elevato. Circa l’80 per cento del milione e mezzo circa di abitanti della Striscia di Gaza dipende ancora dal sostegno degli organismi non governativi e delle organizzazioni internazionali.

Arrivando a Gaza City o a Rafah, tuttavia, si nota anche la vivacità tipica delle città arabe, piene di mercati e negozi che offrono frutta, verdura, vestiti e tutte quelle cose che si possono trovare in qualsiasi località mediorientale. A prima vista, insomma, la vita quotidiana non sembra poi tanto colpita dalla situazione.

«In generale a Gaza la vita scorre in maniera del tutto normale: gli abitanti vivono in questa situazione già da diverso tempo e molti la vedono come qualcosa di naturale», racconta padre Elias, viceparroco a Gaza da oltre un anno. «La nostra alimentazione, tuttavia, non è come quella di chi vive in altri Paesi, dal momento che si riesce a coprire solamente circa il 60 per cento del fabbisogno giornaliero. Anche se bisogna sottolineare che da qualche mese è possibile ottenere latte e verdure di migliore qualità e anche dolciumi. Resta un grave deficit: ciò che va migliorato è la qualità e quantità dei medicinali». Da quando, nel giugno del 2010, il governo israeliano ha deciso di allentare il blocco, secondo padre Elias si troverebbe tutto il necessario per soddisfare i bisogni quotidiani. «Ma molte cose continuano ad arrivare a Gaza solo attraverso il mercato nero», sottolinea il viceparroco. Un problema particolarmente grave è, inoltre, la mancanza di materiale da costruzione: «È pessimo ed estremamente caro, soprattutto considerando che nelle zone confinanti c’è a disposizione del materiale di ottima qualità a un terzo del costo. In queste condizioni diventa quasi impossibile costruire».

Una cosa che invece un visitatore noterebbe appena, è la presenza cristiana nella Striscia di Gaza: 3 mila persone e una sola parrocchia cattolica che conta appena 250 fedeli: 55 famiglie, per essere precisi.

Le difficoltà cui deve far fronte una comunità così piccola in una regione strettamente musulmana sono tante. «È vero – sottolinea il parroco Jorge Hernandez – che le tradizioni cristiane vengono rispettate, ma nonostante ciò i cristiani arabi della Striscia di Gaza non hanno vita facile. Come cristiani palestinesi si trovano in una situazione delicata nell’ambito del conflitto: in quanto palestinesi conoscono la sorte di chi deve vivere sotto l’occupazione, o – per meglio dire  – il blocco israeliano, e come cristiani non appartengono alla maggioranza musulmana e vengono perciò spesso visti come sgraditi simpatizzanti dell’Occidente».

«Le conseguenze della guerra sono state estremamente gravi, soprattutto per i bambini. Ci sono innumerevoli danni che non potranno mai essere riparati: molte persone hanno perso membri della famiglia e ora vivono alimentate solo dall’odio e dalla sete di vendetta», racconta padre Elias, che aggiunge: «Credo sia importante a questo proposito menzionare l’atteggiamento dei cristiani. Un atteggiamento che, in situazioni come questa, ci permette di superare le ferite più profonde. La popolazione è formata quasi esclusivamente da musulmani, ma gli unici che possono veramente parlare di perdono sono i cristiani».

Nelle conversazioni con il parroco Jorge Hernandez e il viceparroco Elias Fabrega viene ripetuto continuamente che i problemi gravi della popolazione non sono di natura economica o finanziaria. L’allentamento dell’embargo avrebbe, infatti, migliorato un po’ la situazione. Per le vere difficoltà, però, non ci sono soluzioni. «I giovani, anche cristiani, hanno perso ogni speranza: non possono pianificare la loro vita, perché tutto appare molto incerto e insicuro. Non possono sperare in possibilità di studio migliori. Non c’è lavoro per loro», raccontano i due sacerdoti argentini che abitano a Gaza. «Queste persone, ora giovani, un giorno, da adulti, guideranno la società della Striscia di Gaza: quali alternative vengono loro offerte dal di fuori?», si chiedono i due religiosi. «Il problema», incalza padre Elias, «è che neanche le organizzazioni internazionali hanno trovato una soluzione per la Striscia di Gaza e gli abitanti pensano che queste istituzioni si prendano gioco di loro. Le persone hanno la sensazione che a nessuno interessi dei loro problemi».

In tali circostanze il contributo della comunità cristiana non solo è d’esempio, ma anche di estrema importanza. Le scuole e i centri di accoglienza per bambini e giovani con handicap gestiti dai cattolici (da qualche mese godono anche del sostegno dell’associazione Ats – Pro Terra Sancta, l’organizzazione senza fini di lucro della Custodia) si occupano anche di molti minori provenienti da famiglie musulmane e riscuotono apprezzamento.

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