Gaza, cercatori di speranza
Sono la prima cosa che un visitatore nota muovendosi verso sud, percorrendo quella striscia costiera di circa 40 chilometri: gli edifici distrutti durante l’ultimo conflitto, lasciati lì, ad ogni angolo della strada, giardini pubblici, scuole, case, ospedali. Solo una parte dei danni alle infrastrutture civili, e in particolare alle strade bombardate durante l’Operazione Piombo fuso condotta a cavallo del 2008/2009 da Israele, è stata riparata. La ricostruzione non procede anche a causa delle restrizioni all’introduzione di materiali da costruzione; i black out elettrici, poi, sono all’ordine del giorno, così come le frequenti interruzioni della fornitura d’acqua. Il blocco israeliano che ebbe inizio nel giugno del 2007 a seguito della presa di potere nella striscia di Gaza da parte di Hamas, ha avuto come conseguenza un improvviso aumento della povertà: l’economia è a terra e il tasso di disoccupazione estremamente elevato. Circa l’80 per cento del milione e mezzo circa di abitanti della Striscia di Gaza dipende ancora dal sostegno degli organismi non governativi e delle organizzazioni internazionali.
Arrivando a Gaza City o a Rafah, tuttavia, si nota anche la vivacità tipica delle città arabe, piene di mercati e negozi che offrono frutta, verdura, vestiti e tutte quelle cose che si possono trovare in qualsiasi località mediorientale. A prima vista, insomma, la vita quotidiana non sembra poi tanto colpita dalla situazione.
«In generale a Gaza la vita scorre in maniera del tutto normale: gli abitanti vivono in questa situazione già da diverso tempo e molti la vedono come qualcosa di naturale», racconta padre Elias, viceparroco a Gaza da oltre un anno. «La nostra alimentazione, tuttavia, non è come quella di chi vive in altri Paesi, dal momento che si riesce a coprire solamente circa il 60 per cento del fabbisogno giornaliero. Anche se bisogna sottolineare che da qualche mese è possibile ottenere latte e verdure di migliore qualità e anche dolciumi. Resta un grave deficit: ciò che va migliorato è la qualità e quantità dei medicinali». Da quando, nel giugno del 2010, il governo israeliano ha deciso di allentare il blocco, secondo padre Elias si troverebbe tutto il necessario per soddisfare i bisogni quotidiani. «Ma molte cose continuano ad arrivare a Gaza solo attraverso il mercato nero», sottolinea il viceparroco. Un problema particolarmente grave è, inoltre, la mancanza di materiale da costruzione: «È pessimo ed estremamente caro, soprattutto considerando che nelle zone confinanti c’è a disposizione del materiale di ottima qualità a un terzo del costo. In queste condizioni diventa quasi impossibile costruire».
Una cosa che invece un visitatore noterebbe appena, è la presenza cristiana nella Striscia di Gaza: 3 mila persone e una sola parrocchia cattolica che conta appena 250 fedeli: 55 famiglie, per essere precisi.
Le difficoltà cui deve far fronte una comunità così piccola in una regione strettamente musulmana sono tante. «È vero – sottolinea il parroco Jorge Hernandez – che le tradizioni cristiane vengono rispettate, ma nonostante ciò i cristiani arabi della Striscia di Gaza non hanno vita facile. Come cristiani palestinesi si trovano in una situazione delicata nell’ambito del conflitto: in quanto palestinesi conoscono la sorte di chi deve vivere sotto l’occupazione, o – per meglio dire – il blocco israeliano, e come cristiani non appartengono alla maggioranza musulmana e vengono perciò spesso visti come sgraditi simpatizzanti dell’Occidente».
«Le conseguenze della guerra sono state estremamente gravi, soprattutto per i bambini. Ci sono innumerevoli danni che non potranno mai essere riparati: molte persone hanno perso membri della famiglia e ora vivono alimentate solo dall’odio e dalla sete di vendetta», racconta padre Elias, che aggiunge: «Credo sia importante a questo proposito menzionare l’atteggiamento dei cristiani. Un atteggiamento che, in situazioni come questa, ci permette di superare le ferite più profonde. La popolazione è formata quasi esclusivamente da musulmani, ma gli unici che possono veramente parlare di perdono sono i cristiani».
Nelle conversazioni con il parroco Jorge Hernandez e il viceparroco Elias Fabrega viene ripetuto continuamente che i problemi gravi della popolazione non sono di natura economica o finanziaria. L’allentamento dell’embargo avrebbe, infatti, migliorato un po’ la situazione. Per le vere difficoltà, però, non ci sono soluzioni. «I giovani, anche cristiani, hanno perso ogni speranza: non possono pianificare la loro vita, perché tutto appare molto incerto e insicuro. Non possono sperare in possibilità di studio migliori. Non c’è lavoro per loro», raccontano i due sacerdoti argentini che abitano a Gaza. «Queste persone, ora giovani, un giorno, da adulti, guideranno la società della Striscia di Gaza: quali alternative vengono loro offerte dal di fuori?», si chiedono i due religiosi. «Il problema», incalza padre Elias, «è che neanche le organizzazioni internazionali hanno trovato una soluzione per la Striscia di Gaza e gli abitanti pensano che queste istituzioni si prendano gioco di loro. Le persone hanno la sensazione che a nessuno interessi dei loro problemi».
In tali circostanze il contributo della comunità cristiana non solo è d’esempio, ma anche di estrema importanza. Le scuole e i centri di accoglienza per bambini e giovani con handicap gestiti dai cattolici (da qualche mese godono anche del sostegno dell’associazione Ats – Pro Terra Sancta, l’organizzazione senza fini di lucro della Custodia) si occupano anche di molti minori provenienti da famiglie musulmane e riscuotono apprezzamento.