L’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi rappresenta per le Chiese cattoliche della regione la «ricezione» definitiva del concilio ecumenico Vaticano II. Prima ancora dei contenuti effettivi dei discorsi, del Messaggio finale e delle «proposizioni» sottoposte al Santo Padre, ciò è evidenziato dalla tematica del Sinodo. Non più chiuse in se stesse, concentrate sui propri (gravi) problemi, dagli orizzonti limitati dall’indole quasi etnica, come se fossero poco più di «minoranze indigene», le Chiese del Medio Oriente si scoprono impegnate nella testimonianza alle società in mezzo alle quali vivono, interpellate dai flussi migratori tutt’attorno, chiamate a rivendicare la libertà religiosa (laddove il concetto stesso pare spesso sconosciuto), coinvolte nel dialogo dinamico – a testa alta – con l’islam e con l’ebraismo.
L’iniziativa è stata di Papa Benedetto XVI, geniale e coraggioso, ma le fondamenta erano state gettate da Giovanni Paolo II. Fu lui, in un discorso all’epoca poco avvertito, davanti ad un’assemblea di giuristi, a Roma, l’11 dicembre 1993, a chiamare i cristiani dell’«est mediterraneo» a liberarsi da una mentalità di minoranze (appena) tollerate, o nel miglior dei casi «protette», per affermare invece il diritto di cittadinanza sulla base dell’uguaglianza con i loro connazionali e vicini. Poco dopo, il 30 dicembre 1993, la Santa Sede firmò l’Accordo fondamentale con lo Stato di Israele, dando all’intera regione l’esempio di un modo nuovo del rapportarsi della Chiesa allo Stato. Ne è seguito l’Accordo di base con la Palestina, una repubblica ancora nel divenire (allora e adesso), che ha voluto con esso riconoscere senza riserve il diritto alla libertà di religione e di coscienza, precisamente come proclamata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948.
È chiaro che il cammino per la trasformazione delle società mediorientali in democrazie compiute è ancora molto lungo e tutto in salita, ma ciò che ci interessa nell’immediato è piuttosto la trasformazione della coscienza che le Chiese della regione hanno del proprio ruolo in tale prospettiva. Non possiamo e non vogliamo controllare gli Stati, ma possiamo e dobbiamo essere noi chiari e «luminosi» rispetto alla nostra missione e ai nostri valori. Nel Medio Oriente, come già altrove in situazioni analoghe, la Chiesa si riscopre inviata a indicare la Via della libertà, dell’umanità. Con il Sinodo una nuova era per le Chiese del Medio Oriente è stata inaugurata.
Non mancavano certo gli argomenti «tradizionali» e i temi più angoscianti, come l’oppressione subita in certe parti della regione o la preoccupazione suscitata nei cuori dei Pastori dall’emigrazione di tanti dei loro fedeli. Ma anche la discussione di queste problematiche, reali ed urgenti, sembra essere stata alquanto ridimensionata dalla rinnovata consapevolezza che la Chiesa non esiste per sé stessa, ma «per la vita del mondo».
Inevitabilmente un’attenzione particolare è stata riservata alla Terra Santa, al singolare ruolo che vi hanno i credenti in Cristo di espressione ebraica, venuti alla luce come mai prima, come pure alla sempre dolorosa situazione dei Territori Palestinesi. Certo, non è stato possibile parlare del dramma che coinvolge i palestinesi e gli israeliani senza attirarsi qualche critica per aver assertivamente preso la parte degli uni nel conflitto con gli altri. Ma la lettura dei testi «incriminati» ne dimostra l’infondatezza. Del resto, la Chiesa voluta dal Vaticano II non può sorvolare il territorio, ma deve piuttosto radicarsi in esso e farsi carico delle «gioie e dei dolori» delle persone e delle comunità che lo abitano, in Terra Santa come altrove.
Il Sinodo si è concluso. La sua messa in pratica si è avviata.