Sono un milione e mezzo. Vale a dire oggi un cittadino israeliano ogni cinque. Sono stati i primi a riconoscere lo Stato d’Israele, già trent’anni prima dello storico viaggio a Gerusalemme del presidente egiziano Anwar Sadat. Eppure nella società israeliana di oggi sono sempre più spesso additati come potenziali e pericolose «quinte colonne» del nemico. Loro stessi si sentono sempre più a disagio in un Paese dove il ritornello sull’identità giudaica dello Stato si fa ogni giorno più insistente. Anche se poi
i loro figli – di fatto – parlano l’ebraico molto meglio dell’arabo. È dentro alla frontiera estremamente complessa della comunità arabo israeliana che proviamo ad addentrarci attraverso queste pagine. Un mondo sempre più al centro di polemiche incandescenti a Gerusalemme.
È un viaggio dentro a quella che avrebbe potuto essere una comunità-ponte tra Israele e la Palestina e invece si ritrova ogni giorno di più a vivere sulla propria pelle le contraddizioni di questo conflitto. Un’ulteriore occasione per guardare al Medio Oriente senza fermarsi alle semplificazioni. Da tempo parliamo tutti dei due Stati per due popoli come la soluzione magica che risolverà ogni cosa. E invece proprio la questione degli arabi israeliani sta lì a ricordare che la pace ha bisogno di qualcosa di un po’ più forte di un accordo su una mappa. Perché alla fine – anche in Medio Oriente – è sulla questione del rapporto tra identità e diritti delle minoranze che si misura la capacità di vivere davvero insieme.
(Questo testo è l’Introduzione del Dossier centrale di 16 pagine del bimestrale Terrasanta)