«La nostra paura è quella di non avere futuro. Ma ce n’è una più grande: quella che non si abbia il coraggio di dire le cose come stanno». Parla così l’arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Luis Sako, l’uomo che ha chiesto e ottenuto dal Papa la convocazione della prima assemblea sinodale sul Medio Oriente.
(Roma) – «La nostra paura è quella di non avere futuro. Ma ce n’è una più grande: quella che non si abbia il coraggio di dire le cose come stanno». Parla così l’arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Luis Sako, l’uomo che ha chiesto e ottenuto dal Papa la convocazione della prima assemblea sinodale sul Medio Oriente.
Eccellenza, lei ha detto in aula che la sopravvivenza delle Chiese del Medio Oriente dipende dal rapporto con i musulmani. Che cosa si aspetta oggi dagli interventi dell’ayatollah Mohaghegh Ahmadabadi e dell’imam Al-Sammak?
Ascolteremo cosa ci dicono e vedremo se ci sono spazi per cercare di aiutare questi teologi ad avere un impatto sulla base. Sarebbe già un grosso risultato se si potesse ottenere da loro una dichiarazione che i cristiani non sono kuffar, «infedeli». Già questo potrebbe essere un inizio, perché sarebbe un primo segnale di cambiamento
È stato lei a chiedere per primo la convocazione del Sinodo. Che cosa si aspetta da queste due settimane?
Il Papa disse subito che era una buona idea. Dopo che nel marzo del 2009 in un incontro ad Amman feci firmare una petizione a tutti i patriarchi, non ci sono più stati ostacoli. Abbiamo chiesto questo incontro perché abbiamo bisogno di sentire maggiormente la presenza e la solidarietà della Chiesa universale in Iraq. Abbiamo avuto un vescovo assassinato, tre preti e tre diaconi, più di 800 fedeli uccisi, la metà dei cristiani ha lasciato il Paese… C’è bisogno di aiuto anche per cambiare la situazione politica: vogliamo uno Stato laico, la legge islamica non può essere la fonte del diritto. Esigiamo rispetto da parte dei musulmani, e l’opportunità di proclamare la nostra fede. C’è una contraddizione stridente fra il mondo contemporaneo e il Medioevo che vorrebbero imporci.
Quali misure concrete chiedete al Vaticano di intraprendere?
Prima di tutto aiutare la Chiesa, visto che le nostre Chiese sono piccole e frammentate, a riorganizzare la propria struttura interna, avviare l’aggiornamento della liturgia, favorire l’unità dei vescovi e la formazione del clero. Secondo, come cristiani, soprattutto con gli ortodossi dobbiamo avere la stessa posizione politica, magari parlare con una sola voce nei confronti dello Stato. Terzo, l’emigrazione: vogliamo che i nostri fedeli siano aiutati a rimanere perché hanno un ruolo da giocare, una Chiesa in diaspora non è una Chiesa.
Come è stato accolto ieri il discorso del rabbino Rosen?
In generale, ha fatto un appello alla convivenza. Ma di concreto non c’è nulla. I negoziatori dovrebbe invece trovare il coraggio di sedersi senza mediatori, israeliani e palestinesi, discutere i problemi cruciali senza essere tirati per la giacchetta da ciò che dice uno e ciò che dice l’altro. Molti dei problemi del Medio Oriente derivano dal conflitto israelo-palestinese: bisognerebbe trovare un modo civile di incontrarsi di discutere in modo diretto, senza paura e senza umiliazioni.
Lei ha parlato del commercio di armi. Chi lo porta avanti?
Sia gli Stati Uniti che vari Paesi europei, da anni, sono coinvolti in questo traffico. Il Medio Oriente è una polveriera, pullula di armi, nell’indifferenza generale.
(Di questi e altri temi si parlerà domani, 15 ottobre, alle 19.15 nell’appuntamento dedicato all’Iraq nell’ambito della rassegna Sguardi sui cristiani del Medio Oriente press la sala Pio X in via della Conciliazione 5)