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Rosen: Tra ebrei e cattolici clima migliore, ma la strada è lunga

Manuela Borraccino
13 ottobre 2010
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Rosen: Tra ebrei e cattolici clima migliore, ma la strada è lunga
Il rabbino David Rosen, invitato a prender parte ai lavori del Sinodo sul Medio Oriente.

C'è stato un indubbio miglioramento nella percezione della Chiesa cattolica da parte del mondo ebraico e di Israele, dovuto soprattutto allo storico viaggio di Giovanni Paolo II nel 2000. Tuttavia, ha ammesso il rabbino David Rosen intervenendo oggi davanti ai padri sinodali in Vaticano, il conflitto israelo-palestinese continua a influire negativamente sul rafforzamento dei rapporti fra ebrei e cristiani.


(Roma) – C’è stato un indubbio miglioramento nella percezione della Chiesa cattolica da parte del mondo ebraico e di Israele in particolare, dovuto soprattutto allo storico viaggio di Giovanni Paolo II nel 2000. Ma, ha ammesso il rabbino David Rosen, il conflitto israelo-palestinese continua a influire negativamente sul rafforzamento dei rapporti fra ebrei e cristiani, soprattutto in Israele, e nel dialogo fra le tre grandi religioni monoteistiche in Medio Oriente. Luci e ombre del rapporto fra Chiesa cattolica e mondo ebraico sono state evocate oggi nell’aula del Sinodo, nell’atteso intervento del direttore del Dipartimento per gli Affari interreligiosi dell’American Jewish Committee, «invitato speciale» al Sinodo per il Medio Oriente insieme ai due leader religiosi musulmani che parleranno domani.

Figura di primo piano nel dialogo ebraico-cristiano, il rabbino Rosen ha dedicato gran parte del suo intervento alla situazione dei cristiani di cittadinanza israeliana che «non ha eguali in nessun altro luogo del Medio Oriente». Certo, ha amesso, nei Territori Palestinesi la situazione è ben diversa. A causa della militarizzazione della vita civile, ogni palestinese è considerato «una potenziale minaccia» alla sicurezza dei cittadini israeliani: «per un soldato al check-point non conta che dall’altra parte ci sia un cristiano o un musulmano». La lotta palestinese per l’indipendenza si ripercuote sulle comunità cristiane che portano spesso «il peso delle misure di sicurezza che Israele si sente obbligato a mantenere per proteggere i suoi cittadini».

Tuttavia, ha riconosciuto Rosen, «la sofferenza dei palestinesi in generale e dei palestinesi cristiani in particolare dovrebbe essere una profonda preoccupazione per gli ebrei sia israeliani che della diaspora. Per me personalmente, come israeliano e gerosolimitano – sono le parole risuonate nell’aula Paolo VI – la situazione angosciante in Terra Santa e la sofferenza di così tante persone sui lati opposti della divisione politica, è fonte di grande dolore; anche se sono consapevole che questo viene utilizzato e abusato per alzare il livello della tensione al di là del contesto geografico del conflitto vero e proprio».

Interpellato stamane in un’affollata conferenza stampa prima dell’intervento al Sinodo, Rosen ha sottolineato a più riprese come Papa Benedetto XVI si sia posto fin dall’elezione sulle orme del predecessore nel processo di riavvicinamento avviato da Wojtyla negli anni scorsi. «La differenza fra loro è soprattutto di personalità, ma – ha rimarcato – anche se la potenza delle immagini dei gesti compiuti da Giovanni Paolo II rappresentano un unicum, dal punto di vista teologico il viaggio di Papa Ratzinger non è stato meno importante di quello del predecessore, perché i suoi discorsi sono stati davvero molto importanti e molto profondi».

Benedetto XVI, secondo il rabbino, sta rendendo «istituzionale» il cammino che Giovanni Paolo II ha aperto per primo. «E non si apprezzerà mai abbastanza – ha aggiunto – quel che il Papa ha detto non solo nelle visite in Israele, ma anche quando è stato ad Auschwitz e alla sinagoga di Roma. Dire che l’antisemitismo non solo è un peccato contro Dio e l’umanità ma è un attacco alle fondamenta stesse del cristianesimo, equivale a una condanna inequivocabile di qualsiasi ritorno al passato anti-giudaismo».

Lo studioso israelita non si è negato infine alle domande su cosa ne pensi del giuramento di fedeltà allo Stato ebraico del quale si discute in questi giorni e non solo in Israele. «Non ho difficoltà – ha risposto – ad affermare che non sempre Israele fa le cose giuste e non sempre fa le cose intelligenti. Però debbo anche fare presente che questo giuramento non cambia chissà cosa in Israele, perché Israele si è sempre definito Stato democratico ed ebraico. Diciamo che intende impedire agli arabi di influire negativamente sulla demografia. Ma nego che questa legge sia un colpo alle fondamenta democratiche dello Stato: voglio dirlo con chiarezza, anche perché in Israele l’identità ebraica riguarda molto di più la cultura, la nazionalità, che non la religione».

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