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Ponti non muri

Giorgio Bernardelli
4 ottobre 2010
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Ancora una volta in queste ore la pace in Terra Santa è prigioniera del muro contro muro su questioni di principio. Quelle che immancabilmente oscurano il volto umano di questo conflitto infinito. E allora - ancora una volta - vogliamo dar voce a quei ponti che nascono quando le persone provano a capire che il dolore non conosce frontiere.


Ancora una volta in queste ore la pace è prigioniera del muro contro muro su questioni di principio. Quelle che immancabilmente oscurano il volto umano di questo conflitto infinito. E allora – ancora una volta – mi sembra importante dare voce a quei ponti che nascono quando le persone provano a capire che il dolore non conosce frontiere. Proprio in questi ultimi giorni ho letto altre due storie straordinarie in questo senso.

La prima è purtroppo legata a un nuovo dramma: nell’ultimo mio intervento in questa rubrica parlavo degli scontri nel quartiere di Silwan. Poche ore dopo, sempre a Gerusalemme Est e sempre per quegli stessi scontri, è morto un bambino di 18 mesi, soffocato in casa sua dai gas lacrimogeni sparati dall’esercito nel quartiere di Issawya per disperdere alcuni manifestanti palestinesi. C’è un dettaglio importante: Muhammad, il bambino che ha perso la vita, è un nipote di Aziz Abu Sarah, il pacifista palestinese le cui riflessioni sulla sofferenza come occasione di incontro rilanciavamo sempre in questa rubrica qualche settimana fa.

A commento di questa dolorosissima vicenda sul suo profilo su Facebook Aziz ha scritto: «Grazie ancora a tutti per le vostre condoglianze. Ai miei amici ebrei voglio dire: sappiate che non imputo a voi le azioni di questi soldati. Qui per me non è questione di arabi contro ebrei. Siamo noi che rispettiamo il valore di ogni singola vita contro quelli che non lo fanno. Le azioni di questi soldati che hanno deciso di sparare i lacrimogeni in un quartiere così densamente popolato sono un esempio di come l’odio, il razzismo e l’ignoranza stiano trionfando sull’umanità in questa nostra regione. Dobbiamo avere il coraggio di resistere alla tentazione di comportarci anche noi così».

Le parole di Aziz si collegano bene a un altro articolo pubblicato qualche giorno fa sul sito Common Ground. A firmarlo è un palestinese che ha passato alcuni anni nelle carceri israeliane per un’azione violenta nel contesto dell’intifada. Scontata fino in fondo la sua pena, Faisal Al Katheeb qualche settimana fa ha partecipato a una visita allo Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme. E l’articolo è il racconto della sua visita. Spiega di essere rimasto particolarmente colpito dalla testimonianza di Ruth, una delle accompagnatrici, una sopravvissuta alla Shoah: lei allora era una bambina piccola che vide suo padre essere portato via dai tedeschi. E da quel giorno – lei ancora incapace di scrivere – disegnava la sua casa e la sua famiglia e infilava i fogli nella casella postale, sperando che il papà li vedesse e un giorno tornasse. Quel giorno non arrivò mai: il padre morì in un campo di sterminio.

«Più di ogni altra cosa – scrive Faisal – durante questa visita ho capito con chiarezza che palestinesi e israeliani devono sforzarsi di arrivare davvero alla pace il più presto possibile. Basta spargimenti di sangue, basta sofferenza. Segnati dal nostro passato, dobbiamo lottare per un futuro migliore. Da entrambe le parti ci sono tuttora troppi prigionieri e troppi ostaggi il cui destino rimane incerto. Dobbiamo aspettare, ancora una volta, la lettera di un bambino o di una bambina palestinese o israeliana che cerca suo padre o la sua famiglia? Come figli di Abramo non vogliamo che i nostri figli soffrano come è successo a Ruth».

So già l’obiezione di qualcuno: non si può paragonare l’esperienza dei deportati nei campi di concentramento a quella dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Sono d’accordo. Il problema, però, è che questo non ci può esimere dal vedere che anche nella condizione dei detenuti palestinesi e delle loro famiglie c’è una sofferenza profonda. Quando si parla di accordi per la loro liberazione immancabilmente si parla di gente «con le mani macchiate di sangue». Tra questa gente ci sono anche persone come Faisal.

Aziz e Faisal sono due volti della Terra Santa dei «costruttori di ponti», a cui è dedicato Ponti non muri, il mio nuovo libro che esce in questi giorni per le Edizioni Terra Santa. È un tentativo di mettere in fila tante storie come queste che hanno per protagonisti israeliani e palestinesi. Gente che anziché innalzare barriere che in Medio Oriente non sono solo fisiche ma anche psicologiche, prova a costruire qualcosa. Sappiamo tutto sui muri della Terra Santa, vogliamo tutti che spariscano. Ma solo condividendo almeno un po’ della concretezza e della fatica di queste persone che provano a fare i conti con le ferite di questo conflitto potremo sperare di farli cadere davvero.

Clicca qui per leggere sul blog 972 l’intervento di alcune ong israeliane sulla vicenda del neonato morto a Issawya

Clicca qui per leggere l’articolo di Faisal Al Katheeb

Clicca qui per leggere l’anticipazione di un brano tratto da Ponti non muri uscita qualche giorno fa su Avvenire

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