«Abbiamo discusso e litigato, ma lo abbiamo fatto con uno spirito di unità e di comunione che ci fa tornare a casa con la consapevolezza della magnifica Chiesa alla quale apparteniamo». Con queste parole padre David Neuhaus, vicario del patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica, commenta a Terrasanta.net l'esperienza del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, ormai alle battute finali.
(Città del Vaticano) – «Abbiamo discusso e litigato, ma lo abbiamo fatto con uno spirito di unità e di comunione che ci fa tornare a casa con la consapevolezza della magnifica Chiesa alla quale apparteniamo». Con queste parole padre David Neuhaus, vicario del patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica, commenta a Terrasanta.net l’esperienza del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, ormai alle battute finali.
Padre Neuhaus, quali sono le sfide principali per la comunità cattolica di lingua ebraica in Israele?
La sfida più grande è la trasmissione della fede. Per noi il rischio è l’assimilazione alla società israeliana ebraica. Assistiamo a una certa emigrazione di famiglie di lingua ebraica che si rendono conto che sarà difficile crescere i loro figli nella fede cattolica in quel contesto, e quindi vivono in Israele per un po’ di tempo e poi decidono di emigrare. Dopo 55 anni di vita (della comunità cattolica di espressione ebraica in Israele composta da alcune centinaia di persone – ndr), vediamo come diversi bambini di famiglie cattoliche si assimilino molto presto e molto facilmente nella società ebraica israeliana secolarizzata. Quando arrivano al liceo o iniziano il servizio militare, i giovani smettono di venire in Chiesa. Così la nostra sfida più grande è quella di far vivere un’esperienza di fede forte e autentica da bambini, una fede vissuta nella gioia, e in seguito cercare di rimanere in contatto con i giovani, parlare il loro linguaggio, in modo da poterli sostenere nel loro percorso di vita: una vita vissuta in ebraico nel cuore della società ebraica israeliana.
Quali segnali di speranza vede per il futuro?
Il primo segnale positivo è che dopo 55 anni siamo ancora vivi. Questo è qualcosa che ci dà tanta speranza, vedere continuare questa questa comunità e cercare di affrontare le sfide che la realtà ci pone. Il secondo segnale positivo è che stiamo ormai diventando parte della componente maggioritaria della popolazione e che stiamo facendo qualcosa di molto apprezzato nella Chiesa, nel cercare l’inculturazione all’interno della società ebraica. Vivere la nostra fede nel cuore della società ebraica è un’esperienza meravigliosamente dinamica. Quello che speriamo è che questa esperienza magnifica possa attrarre giovani cattolici che continuino con noi questa avventura.
Al Sinodo si è parlato dei problemi di identità della minoranza cattolica araba di nazionalità israeliana. Quello dell’identità è un problema anche per i giovani ebreofoni?
Certamente. Il problema dell’identità in Israele è molto complicato. Già essere israeliano e non far parte della corrente maggioritaria ebraica della popolazione provoca una crisi di identità. Ma credo che i giovani siano molto più flessibili di noi, come clero e vescovi, nel riflettere sui vari aspetti dell’identità. Quel che sta accadendo nella Chiesa oggi in Israele è che si sta formando una nuova identità, che nessuno finora ha pienamente interiorizzato, che è quella degli israeliani cattolici di lingua ebraica. Certo, c’è da dire che i cattolici di lingua ebraica, soprattutto i giovani, sono molto più integrati nella società israeliana di quanto non siano i giovani cristiani arabo-israeliani, che appartengono alla minoranza araba e patiscono discriminazioni… La loro è una battaglia molto diversa. Ma c’è un movimento all’interno della società israeliana che è ancora in corso: stiamo costruendo qualcosa di nuovo, e questa novità non è stata ancora pienamente compresa. Io mi auguro che la società israeliana si evolva in modo da diventare sempre più aperta e più accogliente verso tutti.
Ci sono delle attività in comune tra i cattolici di lingua araba e cattolici di lingua ebraica?
Dobbiamo ammettere che questi due gruppi non si incontrano molto spesso, non si mescolano abbastanza. Ciò che li riunisce di solito sono Messe, celebrazioni, feste, o grandi eventi come la visita del Papa. Di solito ogni gruppo linguistico si riunisce per le proprie attività: indiani, filippini, e così via… Abbiamo bisogno di lavorare molto di più sulla consapevolezza che la nostra Chiesa è una realtà incredibilmente pluralista e multiculturale. È vero che la parte più antica di quella Chiesa e la più venerabile, quella dove i fedeli vivono una grande difficoltà è la parte di lingua araba, ma credo che dobbiamo lavorare molto di più verso l’unità di tutti i segmenti della nostra Chiesa.
Qual è l’impatto del conflitto israelo-palestinese sulla vita della Chiesa?
Il conflitto ha sicuramente un impatto molto forte: ciò spesso impedisce anche di riunire insieme le diverse comunità. Credo che da entrambe le parti abbiamo bisogno di spiegare con più chiarezza cosa vuol dire vivere i valori cattolici in questa situazione di conflitto: per esempio abbiamo bisogno di formare i fedeli a raccogliere sempre più la sfida di essere ponti, non possiamo chiuderci nelle sagrestie, nelle nostre liturgie, perché Cristo ci chiama ad abbattere i muri per portare la sua pace. Penso che dobbiamo lavorare su questo: è un problema enorme, perché il conflitto è così reale… non è affatto teorico! È un problema per i nostri giovani quando iniziano il servizio militare, è un problema con i posti di blocco, è un problema il fatto che gli arabi parlino ebraico e che gli ebreofoni parlino pochissimo l’arabo… Quindi abbiamo davvero bisogno di lavorare di più per collegare le diverse comunità. Un aspetto che prendo molto sul serio, da quando sono stato nominato vicario, è di continuare a insegnare nel seminario palestinese per mantenere un collegamento con la società araba. Proprio perchè stiamo lavorando per costruire un futuro migliore per tutti: costruire un futuro senza muri, senza barriere, senza chiusure, lavorando sull’apertura.
Il documento Kairos Palestina ha suscitato reazioni contrastanti in Israele e in Palestina. Lei che ne pensa?
Kairos Palestina definisce se stesso in modo preciso, e credo che dobbiamo prestare una grande attenzione a questo aspetto: il documento si presenta come «un grido di sofferenza». Io credo che tutti noi che viviamo in quella parte del mondo siamo chiamati ad ascoltare quel grido. Ciò non significa essere d’accordo con ogni singolo paragrafo, ma ritengo che il grido lanciato dai nostri fratelli e sorelle che vivono nei Territori occupati debba essere ascoltato. Come cristiani, abbiamo bisogno di restare uniti perché il nostro Paese sta attraversando una crisi terribile, e ancora una volta siamo chiamati in questa crisi a servire la Chiesa.
Quali sono le sue impressioni al termine di questo Sinodo, il primo convocato per Chiese del Medio Oriente?
Sono rimasto molto impressionato dal vedere a quale stupenda Chiesa apparteniamo, con una tale varietà, una tale diversità di situazioni, e come siamo in grado di riunirci e trovare un linguaggio comune. Mi ha colpito tantissimo il calore con cui sono stato ricevuto, come vicario di lingua ebraica. Mi ha sinceramente commosso il vedere che, subito dopo il mio intervento, dove avevo pronunciato qualche parola di ebraico, sono stato avvicinato da molti vescovi di diversi Paesi arabi, a testimonianza di quanto i nostri cuori siano aperti. Al di là dei fattori ideologici e culturali, le divisioni e i nazionalismi sono stati messi da parte e ci è piaciuto molto stare insieme. Abbiamo discusso, litigato, ma con uno spirito che è stato veramente quello di unità e di comunione.
Cosa porterà con sè di questa esperienza?
Credo che andremo tutti via da qui con la consapevolezza di essere una cosa sola: pregheremo l’uno per l’altro, ovunque noi siamo, e credo che dopo queste due settimane siamo uniti in un modo nuovo, chiedendo una maggiore unità in Cristo.