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In Medio Oriente per lo sviluppo e la dignità dei popoli

Simone Esposito
8 ottobre 2010
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In Medio Oriente per lo sviluppo e la dignità dei popoli
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I cattolici in Medio Oriente sono di sicuro una minoranza, ma decisiva. Suor Katia Antonios Mikhael, in proposito, non ha alcun dubbio. Libanese, religiosa saveriana e medico scandisce bene il concetto: «La Chiesa cattolica continua a portare, nella visione culturale del Medio Oriente, il proprio concetto di dignità umana».


(Roma) – Una minoranza, certo. Ma una minoranza «pesante», significativa, anzi, decisiva per le sorti delle comunità nazionali dei Paesi del Medio Oriente. Suor Katia Antonios Mikhael, in proposito, non ha alcun dubbio. Libanese, religiosa saveriana, medico specializzato in medicina della famiglia e della comunità, scandisce bene il concetto in un ottimo italiano: «La Chiesa cattolica ha portato e continua a portare, nella visione culturale del Medio Oriente, il proprio concetto di dignità umana, e lo fa attraverso le sue comunità e le sue istituzioni sociali».

È un mondo che suor Mikhael conosce bene, come esponente di Caritas Medio Oriente e Nord Africa. Proprio in questa veste la religiosa sta partecipando in questi giorni a Roma ad un workshop che Pax Romana, la rete internazionale dei movimenti intellettuali cattolici (per l’Italia aderisce il Meic) ha organizzato in occasione dell’imminente assemblea speciale del Sinodo: insieme a lei una cinquantina di altri cristiani mediorientali, quasi tutti laici, sta preparando un documento da offrire come contributo ai padri sinodali.

Ma, in concreto, il contributo dei cristiani al servizio della società mediorientale qual è? Spiega suor Mikhael: «Educazione, tutela della salute, giusta informazione: non sono solo servizi, ma sono tutti valori apportati dalle realtà cristiane, attraverso le scuole, gli ospedali, le ong, i media. Oggi il ruolo delle nostre comunità è fondamentale, anche se è messo alla prova». Da cosa? «Spesso le condizioni economiche, sociali e culturali ci portano davanti a un bivio: o rinchiudersi all’interno della comunità, o emigrare. Il Sinodo, invece, deve avere il coraggio di proporre una terza via: quella di aprirsi, di sfuggire alla tentazione del ripiegamento. Il ghetto non è la nostra vocazione».

È questa, secondo la saveriana, la chiave giusta per leggere il tema generale dell’assise episcopale, «Comunione e testimonianza»: «Entrambe – dice – passano sul piano sociale e della solidarietà. Oggi, nei Paesi della regione, c’è un grosso problema di sviluppo per la maggioranza musulmana, per esempio per quanto riguarda l’accesso alle cure sanitarie. È un deficit che va colmato, ed esplorare un percorso comune che ci permetta di farlo è una sfida che riguarda tutte le componenti delle società civili mediorientali, e non soltanto il mondo cristiano».

Quella delle disparità di sviluppo e della possibilità di una vita dignitosa è, per la Mikhael, la questione fondamentale. «Non tutti hanno ancora capito – ci dice la suora – che il fondamentalismo è, prima che un problema religioso, un vero e proprio problema di giustizia sociale. Senza ristabilire quest’ultima, è difficile lavorare con il mondo musulmano per una condivisione intorno ai valori dell’etica sociale e della libertà».

Libertà che alla fine viene drammaticamente a mancare proprio ai cristiani, «e non soltanto in quegli Stati dove non si permette la costruzione delle chiese. Pensiamo all’Egitto: ben metà dei cristiani del Medio Oriente vive lì, ma costituisce solo il 6 per cento della popolazione, e i cattolici sono addirittura lo 0,2 per cento soltanto. In Egitto l’islam è tollerante ed è garantita la libertà religiosa: le chiese ci sono, sono aperte. Ma quello che manca è la libertà di coscienza, il diritto di credere o di non credere, di cambiare il proprio credo e comunque di condurre la vita di tutti i giorni secondo le proprie convinzioni: tutte cose che qui in Europa sono normalissime, scontate, ma non lì. E non si può negare che i grandi problemi sociali non contribuiscano in maniera determinante al fondamentalismo che alza le barriere fra le diverse comunità di fede».

La sfida è, conclude suor Mikhael, «impegnarsi a camminare nella direzione di uno sviluppo diffuso: i tempi sono lunghi, ma è uno sforzo necessario che il Sinodo deve affermare e incoraggiare».

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