Nel corso degli ultimi mesi – non per la prima volta – ho trascorso parte del mio tempo a collaborare con altri giuristi nella stesura di eventuali proposte per una miglior protezione dei Luoghi Santi. La comune preoccupazione di fondo è sempre per la Terra Santa, per i Luoghi Santi della cattolicità. Ci siamo trovati però – come già nelle esperienze che ho fatto precedentemente – nella necessità di fare un discorso piuttosto generico, capace di essere applicato anche ad altri «luoghi», di minore rilievo, di qualsivoglia altra religione, e che si trovano in altri Paesi; luoghi che forse non hanno le stesse esigenze di tutela, e per i quali forse non sarebbe egualmente ragionevole pretendere tanto. Diversamente, mi è stato fatto capire, la nostra impresa non sarebbe «politicamente corretta».
Un anno fa (ma l’episodio è capitato altre volte, sia prima che dopo) sono stato invitato da una prestigiosa università (cattolicissima) a prendere parte in un seminario di studio, a porte chiuse, per soli invitati, sui rapporti tra la Chiesa e un «determinato» Paese e una «determinata» religione (l’autore è impegnato da molti anni nei colloqui bilaterali Santa Sede-Israele – ndr). Una simile occasione sarebbe stata perfetta per chiarirci le idee. Invece no. L’ansia dell’«inclusione», la voglia di «correttezza politica», fu tale da far invitare anche gli interlocutori dell’altra parte. Fino a farne, anzi, la maggior parte dei presenti, riservando loro la maggior parte del tempo. Diversi prelati avevano rifiutato l’invito, e nella trappola – così mi è poi parsa – ci sono cascato io, quasi l’unico di parte cattolica. Resomene conto, stavo per andarmene, ma la buona educazione prevalse e questo sgarbo non lo feci. Trovai invece il modo, divertente e cortese, anche se inequivocabile, di dire la mia. Lo racconterò forse un’altra volta.
Non sono episodi isolati. Sempre più, in Occidente, la Parola si trova soffocata, messa a tacere, dalle altrui parole. Il dialogo, tanto voluto e tanto necessario, diventa, per nostra responsabilità, l’altrui monologo. Proprio mentre scrivo, la grande capitale europea che mi ospita sta vivendo l’incubo dell’ennesima, tumultuosa incursione di un personaggio oltremodo ingombrante, proveniente dall’altra sponda del Mediterraneo. Quel colonnello Gheddafi che osannato e coccolato, lancia dissennati insulti e minacce ricattatorie al cristianesimo e all’Europa. Senza contradditorio.
E d’altra parte si fanno sempre più stridenti le voci dei bigotti, che fanno del cristianesimo un identitarismo becero, buono per alimentare odi, discriminazioni e persecuzioni contro chi è diverso, spesso proprio contro i più deboli, usando simbologie e linguaggi – seppur spesso camuffati da parole «in codice» – che si speravano superati decenni orsono.
Ma è possibile che non ci sia per chi vuol dirsi cristiano una via maestra per rapportarsi agli «altri»? Una via che non sia fatta di infinita remissività ma neppure di ottusa arroganza? Dobbiamo ritrovare tutti la via che percorra fedelmente, sine glossa, gli stupendi insegnamenti del concilio Vaticano II, che seppe abbinare armoniosamente il fiducioso annuncio della Buona Novella di Gesù Cristo il Figlio di Dio (Mc 1,1) e la rispettosa apertura al dialogo con chi questa Buona Nuova non l’ha ancora accolta, sempre in base a valori umani che già ci accomunano.
L’«umile fierezza» dei discepoli di Gesù non deve confondersi né con l’abuso violento del nome di «cristiano», e neppure deve cedere all’auto-annichilimento davanti a chiunque questo nome non porti.