Nelle vigne di Cremisan
Il tempo della vendemmia arriva presto, sulle colline della Giudea. Già nella prima settimana di agosto i grappoli pendono maturi dai tralci e attendono solo di essere tagliati dalle cesoie dei vendemmiatori. Da questo momento, per due mesi, il lavoro anima i filari israeliani e palestinesi; e, tra questi, anche quelli delle vigne di Cremisan, la tenuta del salesiani situata a 850 metri sul livello del mare, nel cuore della Terra Santa, a cinque chilometri da Betlemme e dodici da Gerusalemme. La grande casa dei salesiani ha le sua fondamenta in un luogo che traspira storia da ogni poro: storia biblica e storia della Chiesa; ma anche le più recenti vicende della difficile attualità mediorientale. Qui, ad esempio, gli archeologi situano uno tra i più antichi insediamenti agricoli e artigiani della Palestina; qui venne edificato nel settimo secolo, prima della conquista musulmana, un monastero bizantino. Proprio su rovine paleo-cristiane sorge la casa di Cremisan le cui vigne, dal 1896, non si sono mai stancate di produrre uva, trasformata in gran parte in buon vino. Anche oggi, suo malgrado, Cremisan rimane sotto i riflettori della storia: su queste terre i bulldozer stanno costruendo il tracciato su cui innalzare il muro di separazione voluto dal governo israeliano; la barriera, nello specifico, dovrebbe attraversare la collina su cui sorge la parte più elevata di Beit Jala (villaggio palestinese confinante con Betlemme, dove vive una forte comunità cristiana), e passare appena sopra la strada che porta a Cremisan, sotto la moderna colonia israeliana di Har Gilo. In questo modo la barriera arriverebbe a separare Cremisan da Beit Jala e quindi dalla Palestina, di cui però fa parte.
A dire il vero, il cantiere del muro di separazione è ancora aperto. Ma fanno sorridere amaramente questi lavori in corso, che segnano una sorte indesiderata delle vigne dei salesiani. L’azienda vitivinicola salesiana ripone nel vino un significato non solo commerciale: il vino unisce le religioni ebraica e cristiana, che gli attribuiscono un profondo valore simbolico; mentre sul piano del lavoro le vigne sono un’occasione concreta di vita per i palestinesi. Cremisan offre lavoro stabile a circa 15 persone, provenienti dai vicini villaggi di Al-Walajeh e Beit Jala. Senza contare i lavoratori stagionali coinvolti nella vendemmia. E le molte decine che si giovano del lavoro dell’indotto, fatto di artigianato e commercio. Gli introiti della vendita del vino poi, aiutano a sostenere le attività formative a favore degli oltre 1.600 studenti che frequentano le scuole salesiane di Terra Santa. è la dimostrazione che coltivare e lavorare l’uva può essere un modo per costruire la nuova società palestinese; ma anche un’occasione di dialogo tra israeliani e arabi. Invece il muro, se alla fine verrà eretto, quasi di certo complicherà l’accesso ai campi degli operai palestinesi, compromettendo lavoro e sviluppo. Ma anche la vendita del vino che avviene, in gran parte, con una consegna diretta a ristoranti, albergatori e negozianti di Amman, Betlemme, Gerusalemme, Ramallah e in tutta la Galilea. D’altra parte è già successo che il conflitto abbia danneggiato l’impresa di Cremisan: prima della seconda intifada le vendite superavano le 400 mila bottiglie all’anno (nel 1999 si ricorda il picco di quasi 440 mila unità vendute). Mediamente uscivano dalle cantine 80 cartoni al giorno. Chiusi i confini, le vendite sono crollate drasticamente arrivando alle «sole» 138 mila bottiglie vendute del 2001, per risalire, faticosamente, sopra quota 200 mila negli anni successivi.
Entrando nelle grandi cantine dell’edificio di fine Ottocento, ci si sorprende nel vedere come gran parte del materiale venga dall’Italia: le enormi botti di legno dove il vino riposa hanno la targa metallica della fabbrica Garbellotto di Conegliano Veneto; i silos metallici e i macchinari utilizzati per la produzione sono utilizzati con la supervisione di un enologo italiano, Andrea Bonini, e tutto il progetto è sostenuto dal Volontariato internazionale per lo sviluppo (Vis), ong legata al mondo salesiano. L’idea del Vis da alcuni anni è quella di trasformare l’antica cantina salesiana in una moderna azienda vitivinicola: modernizzando la produzione e rilanciando il marchio Cremisan (che non a caso ha partecipato all’ultima edizione di Vinitaly, vedi box); cercando anche di guadagnare il sostegno al progetto da parte di wine maker di fama internazionale come l’italiano Ricardo Cotarella: «È sempre entusiasmante per me, in quanto tecnico del vino, studiare le performance della vite in territori, a me e ai più, sconosciuti in termini qualitativi – spiega Cotarella -. Nel caso delle vigne di Cremisan mi sono appassionato anche perché lì la vita stessa è storia, passione, religione».
Per dare un futuro alle vigne di don Bosco infine i salesiani hanno pensato di formare il personale locale: per questo due ragazzi arabo cristiani, Laith Kokaly, di Beti Sahour, e Fadi Batarseh, di Beit Hanina sono stati mandati a studiare agraria all’università San Michele all’Adige di Trento. Una laurea triennale, per tornare con consapevolezza al lavoro, nelle vigne palestinesi.