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«Dobbiamo rafforzare una visione cristiana della vita»

Terrasanta.net
2 agosto 2010
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«Dobbiamo rafforzare una visione cristiana della vita»
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Pubblicata nel numero di marzo-aprile 2010 del bimestrale Terrasanta, l’intervista al patriarca armeno-cattolico Nerses Bedros XIX, aggiunge un'altra voce alla carrellata di incontri con i capi delle Chiese cattoliche d'Oriente che vi proponiamo in vista della speciale assemblea sinodale prevista in Vaticano nell'ottobre prossimo. Stralci della conversazione tra il patriarca e Manuela Borraccino.


Pubblicata nel numero di marzo-aprile 2010 del bimestrale Terrasanta, l’intervista al patriarca armeno-cattolico Nerses Bedros XIX, aggiunge un’altra voce alla carrellata di incontri con i capi delle Chiese cattoliche d’Oriente che vi proponiamo in vista della speciale assemblea sinodale prevista in Vaticano nell’ottobre prossimo. Eccovi alcuni stralci della conversazione tra il patriarca e Manuela Borraccino.

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Egiziano, discendente da superstiti del genocidio armeno avvenuto in Turchia nel 1915, il settantenne patriarca armeno-cattolico Nerses Bedros XIX parla così al termine del Sinodo preparatorio tenuto in febbraio a Roma con i vescovi ed esarchi armeno-cattolici.

Beatitudine, in Iraq i cristiani continuano a cadere vittime dei pogrom, fino a toccare quota 825 dal 2003 ad oggi…
Da anni in Iraq lo spargimento di sangue prosegue, nell’indifferenza dei governanti: ogni giorno decine di persone muoiono, cristiani e non cristiani. Che azioni possiamo intraprendere? Se non possiamo impedire questa violenza, possiamo però sensibilizzare i leader politici, in Iraq e all’estero, perché si facciano carico della sicurezza del Paese e del rispetto delle comunità cristiane, e tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale su queste stragi. Il patriarca della Chiesa siro cattolica in Iraq, Mar Ignatius III Joseph Younan, ha scritto al premier iracheno Nouri Al-Maliki accusandolo di non fare nulla per proteggere i cristiani, di essere addirittura complice delle stragi di cristiani a Mosul: eppure i cristiani iracheni sono da sempre una componente della nazione e della storia irachena. La comunità internazionale deve esercitare pressioni per difendere la loro presenza nella regione. C’è anche da dire che ci sono diverse comunità protestanti, pentecostali che cercano di fare proselitismo in Iraq, e questo è pericoloso e va fermato: perché così facendo non fanno che mettere ancora di più a rischio la presenza dei cristiani, lavorano attivamente per farli emigrare.

E in Egitto, dove Hosni Mubarak si propone come garante della stabilità?
Non è diverso in Egitto: anche lì bisogna denunciare senza stancarsi la connivenza tra governo ed esercito, l’ambiguità del rapporto tra governo e forze integraliste. Penso che sia anche fondamentale la formazione permanente dei cristiani, trasmettere una visione cristiana della vita e della intangibilità dell’essere umano, dell’importanza del perdono, del rispetto del pluralismo. Perché in molti dei nostri Paesi è tale l’islamizzazione della società che ai giovani sembra non restino che due opzioni: diventare un terrorista oppure emigrare… E la perdita dei cristiani è una perdita per l’intera regione, non solo per la Chiesa. Dunque bisogna alimentare questa visione cristiana e richiamare i fedeli alle loro responsabilità.

C’è chi trova eccessivo proporre questa visione eroica della fede…
A qualcuno può essere chiesta una testimonianza eroica della fede cristiana, persino il martirio… Però vorrei ricordare che il martirio è un dono, una grazia che Dio concede a qualcuno: un essere umano non può certo darsi da solo la forza di dare la propria vita per non abiurare. La storia degli armeni lo dimostra: si tratta di tenere accesa una fiamma interiore.

Quali sono le priorità per le vostre comunità in Medio Oriente?
In Libano e negli altri Paesi penso di poter dire che siamo abbastanza organizzati, con il clero e con vari movimenti ecclesiali. Il problema è soprattutto quello di frenare l’emigrazione e di trovare i fondi per tenere aperte le nostre scuole, che svolgono una funzione importantissima per la convivenza civile. Soprattutto perché sono frequentate sia da bambini cristiani delle varie confessioni (come avviene nelle nostre in Libano, dove il 70 per cento degli alunni sono ortodossi) sia da bambini musulmani: i genitori preferiscono le scuole cristiane per la preparazione dei docenti e per il metodo di studio. Dobbiamo preservare questa qualità dell’insegnamento perché quello che viene trasmesso è un patrimonio fondamentale non solo sul piano del sapere ma della cittadinanza e, per gli armeni, del senso patriottico.

Tra dispersione geografica e spinte della secolarizzazione, come immagina il futuro della Chiesa armena?
Personalmente vorrei che tutti i fedeli armeni si trasferissero in Libano, dove le nostre attività pastorali e sociali sono più sviluppate e dove le condizioni di vita sono migliori: le leggi garantiscono maggiormente la presenza dei cristiani anche perché in Libano c’è una sostanziale libertà di espressione, di coscienza e di religione. Se questo non è possibile, certamente vanno potenziate le nostre parrocchie della diaspora, in modo che gli armeni non perdano la loro identità religiosa, culturale, nazionale e resti viva la memoria della nostra storia cristiana.

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