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Turchia, rimettersi in cammino da cristiani

padre Gwenolé Jeusset ofm
12 luglio 2010
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Monsignor Luigi Padovese è stato ucciso lo scorso 3 giugno non lontano da Antiochia, là dove i discepoli di Gesù furono chiamati per la prima volta cristiani. Non è purtroppo la prima volta che un cristiano viene assassinato in Turchia e le reazioni, come accade di solito, si riducono a tre. Due sono naturali, la terza è evangelica.

Anzitutto ci sono quelle di chi scorge in questo ennesimo omicidio nuove ragioni per costruire muri; poi quelle di chi giustifica il proprio scoraggiamento negando gli sforzi nel campo opposto; infine quelle di chi, nonostante le sue debolezze e fiducioso nello Spirito, si fa erede di chi ha cercato un’apertura fraterna.

Qui in Turchia pochi si pronunciano sulle motivazioni del dramma o sulle eventuali pressioni che avrebbero spinto l’omicida a una simile barbarie. Qualcuno, tuttavia, ha messo in causa l’islam in quanto tale e non solo gli eventuali estremisti. Questo non solo è pericoloso per la nostra Chiesa di Turchia, ma anche profondamente ingiusto. Solo degli estremisti oserebbero dire che alcuni dittatori del XX secolo, ad esempio in Spagna o in Cile, agivano in nome del cristianesimo quando davano la caccia agli oppositori, trattati tutti alla stregua di servi del diavolo. L’enciclica Nostra Aetate e il concilio Vaticano II (ma anche una nuova consapevolezza nel campo dei diritti umani e della libertà religiosa) non ci indicano questa direzione.

Per mantenersi sulla strada del dialogo non bisogna trascinare nel fango la religione dell’altro, ma piuttosto cercare ciò che unisce.

Certo, buona parte della popolazione turca vive una disarmante incomprensione del cristianesimo. Le agenzie formative e i mezzi di comunicazione non si rendono conto di questa «ignoranza». Guardare e giudicare il Papa o i cristiani con disprezzo o con pregiudizi, non serve la Verità che è Dio, né favorisce la pace tra gli uomini. Contribuisce solo a nutrire la follia di nuovi assassini. Bisogna fare di tutto per aiutare questi fratelli a colmare questa lacuna di conoscenza, ma non potremo essere compresi nella richiesta di un cambiamento di mentalità se agiamo allo stesso modo. D’altro canto, strumentalizzare i morti che hanno voluto il dialogo a costo della vita, non rende loro onore. Se non è disonestà, per lo meno è incoscienza.

Padre Christian de Clergé, priore dei monaci di Tibhirine, in Algeria (ucciso con 6 confratelli probabilmente il 21 maggio 1996 – ndr) diceva nel suo testamento:  «So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti. L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa; sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze».

Una sera di giugno, nella cattedrale di Istanbul, raccolti intorno al successore di mons. Angelo Roncalli che, prima di diventare Papa, proprio in questa terra ha predicato la riconciliazione, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, abbiamo pregato nel dolore ma anche nella serenità. La nostra Chiesa si rimette in cammino.

(traduzione dal francese di Roberto Orlandi)

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