«La ricerca di una pace duratura in Medio Oriente non può prescindere dal riconoscimento dei diritti sociali dei lavoratori palestinesi». È lapidario Friedrich Buttler, consulente dell’Organizzazione internazionale per il lavoro e autore del Rapporto annuale sulla situazione dei lavoratori nei territori arabi occupati. Buttler è intervenuto a una conferenza internazionale promossa dalla Cgil il 21 luglio a Roma.
(Roma) – «La ricerca di una pace duratura in Medio Oriente non può prescindere dal riconoscimento dei diritti sociali dei lavoratori palestinesi». È lapidario Friedrich Buttler, tedesco, consulente dell’Organizzazione internazionale delle Nazioni unite per il lavoro (Oil). Autore del Rapporto annuale sulla situazione dei lavoratori nei territori arabi occupati, Buttler è intervenuto alla conferenza internazionale della Cgil dedicata alla crisi umanitaria israelo-palestinese che si è tenuta ieri a Roma. Lo ha fatto esponendo le cifre – non sempre di facile lettura – della situazione occupazionale in Palestina: «I dati della crescita economica nei Territori occupati nascondono in realtà una situazione umana, economica e sociale terrificante. Nel 2009 il Pil della Cisgiordania è cresciuto dell’8,5 per cento, mentre a Gaza l’aumento è stato dell’1 per cento. Anche il tasso di occupazione è cresciuto, passando globalmente dal 29,8 per cento del 2008 al 31,2 per cento dell’anno seguente. Ma la realtà è che la crescita è dovuta principalmente al budget straordinariamente alto e al sostegno allo sviluppo da parte della comunità internazionale. Questo significa che la situazione economica resta totalmente precaria, specialmente nella Striscia».
Anche i raffronti internazionali evidenziati dal rapporto sono impietosi: a Gaza sette abitanti su dieci vivono con meno di un dollaro al giorno, ovvero sotto il limite della povertà assoluta, e per questo dipendono dagli aiuti esterni. Anche i livelli occupazionali, pur se in crescita, sono sotto gli standard mondiali, che imporrebbero, per un’economia in salute, tassi dell’80 per cento per gli uomini e del 70 per cento per le donne. Per Buttler «la situazione può solo peggiorare», a causa della dipendenza dagli aiuti internazionali e della fragilità strutturale del sistema economico interno. Ma ammette che qualche passo in avanti è stato fatto: «È vero, l’agenda di riforme attuata dall’Autorità Nazionale Palestinese ha ottenuto qualche miglioramento in termini di regole e sicurezza sul lavoro. Ma solo in Cisgiordania: nella Striscia di Gaza, in conseguenza delle operazioni militari israeliane del gennaio 2009, industria e commercio sono stati completamente annullati. Le esportazioni sono vicine allo zero, mentre le importazioni sono scese da 11 mila a 2 mila carichi di camion al mese». Principale responsabile della situazione è il blocco israeliano su Gaza, «che ha spazzato via il commercio privato legale a scapito della cosiddetta tunnel economy. L’allentamento delle restrizioni varato di recente pare non portare effetti significativi».
«Il blocco è assurdo e va rimosso immediatamente», ha aggiunto Filippo Grandi, da gennaio segretario generale dell’Unrwa, l’agenzia Onu che si occupa dei quasi cinque milioni di rifugiati palestinesi. «È una situazione controproducente anche per Israele. L’economia privata, ora in ginocchio, è il nucleo del moderatismo palestinese. Invece così prosperano gli speculatori, che quindi sono i primi che si danno da fare per mantenere alta la conflittualità sociale perché hanno interesse che la crisi continui: una crisi non solo umanitaria ma economica, dei servizi (l’acqua è imbevibile, per esempio) e delle istituzioni». In questo quadro si inserisce anche la grave situazione di bilancio dell’Unrwa: «Abbiamo una falla di 75 milioni di euro. Se la comunità internazionale non ci sostiene, dovremo ridurre le nostre attività. Garantiamo l’istruzione a mezzo milione di ragazzi e rischiamo di non essere più in grado di farlo».
Mentre la situazione lavorativa nella Striscia di Gaza è condizionata dal blocco, in Cisgiordania il problema maggiore è quello del lavoro negli insediamenti israeliani. Spiega Buttler: «Nelle colonie, illegali dal punto di vista del diritto internazionale, stimiamo la presenza di 20 mila lavoratori arabi regolari e 10 mila non registrati. Una situazione difficile perché c’è molto sfruttamento, data la posizione debole dei palestinesi. Il boicottaggio dei prodotti degli insediamenti non risolverà il problema fintanto che in Cisgiordania non verranno garantiti 40 mila posti di lavoro».
Buttler ha anche raccontato dei tentativi di dialogo tra israeliani e palestinesi in campo sindacale per la tutela dei diritti sul lavoro: «Sono tante le cose che mettono in crisi la questione dei diritti: la principale è il complicato sistema di richieste e permessi imposto da Israele, un meccanismo che cambia di giorno in giorno e rende quasi impossibile gli spostamenti di persone e cose. È evidente che così sia il lavoro subordinato sia l’impresa privata non sono in condizione di prosperare stabilmente. Una nota positiva viene dalla collaborazione tra il sindacato israeliano Histadrut e quello palestinese Pgftu. Nel 2008 è stato definito un accordo sotto l’egida dell’Oil per il rimborso, da parte di Histadrut, di gran parte dei contributi pagati dai lavoratori palestinesi assunti da imprese israeliane a partire dal 1993, e sono state anche previste collaborazioni più efficienti per l’assistenza legale e per la formazione alla sicurezza e alla salute sul lavoro». Una sinergia che però – ha proseguito Buttler – non ha vita facile: «Sigle sindacali minori in competizione con il Pgtfu hanno denunciato relazioni “troppo amichevoli”, per dirla diplomaticamente. Adesso c’è più riluttanza nel continuare su questa strada».
Il settore del lavoro, insomma, rimane strategico nell’accidentato percorso di pacificazione. Questo l’Anp lo ha capito, conclude Buttler: «È per questo che bisogna sostenere il governo di Ramallah su tre fronti: la creazione di un’agenzia pubblica per l’impiego, quella di un’agenzia per la sicurezza sul lavoro e l’approvazione di una legge sui sindacati che rafforzi il ruolo delle parti sociali nel mercato del lavoro».
Alla conferenza della Cgil erano presenti anche Avraham Burg, ex presidente del Parlamento israeliano, per molti anni deputato laburista alla Knesset, e Adel Atieh, vice-capomissione della delegazione palestinese presso l’Unione Europea. Burg ha ammesso che «tutti in Medio Oriente conoscono la soluzione al processo di pace: divisione di Gerusalemme e due Stati. E tutti sanno che la situazione attuale è orribile». E allora perché non si agisce di conseguenza? «È una questione di quella che definirei “psico-politica”: una specie di gara, di concorrenza fra i due grandi traumi della persecuzione antiebraica e della cacciata degli arabi dalla Terra Santa. Si finisce per contrapporre i due dolori, come se ce ne fosse uno più grande dell’altro, invece che riconoscerli reciprocamente. Purtroppo Israele e Palestina sono vittime di un vero e proprio “rapimento”: la prima da parte di chi predica ancora l’avvento dell’Eretz Israel, la seconda da parte di Hamas e degli integralisti. Dobbiamo vincere la sindrome di Stoccolma che lega i due popoli ai loro “rapitori”, e questo incoraggiando soprattutto i comportamenti di disobbedienza non violenta, anche attraverso le pressioni della società civile e della comunità internazionale». L’ex uomo politico israeliano ammette lo stallo attuale ma si dice ottimista: «Nel 1973 ero soldato quando ascoltavo Sadat annunciare alla radio che avrebbe sacrificato anche un milione di egiziani per il Sinai. Quattro anni dopo presi parte al servizio di scorta allo stesso Sadat in visita di pace a Gerusalemme, uno dei momenti più importanti della nostra storia. Perché non può succedere di nuovo?».
Un ottimismo che Atieh, pur riconoscendo l’onestà delle posizioni di Burg, non si è sentito di sottoscrivere: «Sono appena tornato da Betlemme, dove ho visto con i miei occhi che la moratoria sugli insediamenti non è rispettata e che si continua a costruire dovunque fuori dai confini. È per questo che non ci sono le condizioni per il dialogo: le colonie, le operazioni militari, il blocco a Gaza, tutto questo smentisce ogni dichiarazione d’intenti. Ci vogliono gesti concreti. Altrimenti continuerà ad essere fertile il terreno su cui Hamas, organizzazione ideologica, è riuscita a conquistare la fiducia di una società storicamente de-ideologizzata come quella palestinese». È l’Unione Europea, secondo Atieh, ad avere le responsabilità maggiori nello scenario internazionale: «L’Ue fa troppo poco, eppure è il primo partner commerciale di Israele. Persino gli Stati Uniti stanno spingendo di più. Invece Bruxelles rafforza i propri legami con Israele senza fare abbastanza pressione perché le cose cambino davvero».