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Bibi & Barack, sostanza o cosmesi?

Giorgio Bernardelli
8 luglio 2010
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Bibi & Barack, sostanza o cosmesi?
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Un clima disteso. Con Barack Obama che dispensa ottimismo sui negoziati diretti. E arriva addirittura a tessere le lodi di Benjamin Netanyahu, dicendo che (come Rabin) è disposto «ad assumersi rischi per la pace». Che cosa sta succedendo davvero nei rapporti tra Israele e Stati Uniti? Viene da chiederselo dopo l’incontro di martedì 6 luglio alla Casa Bianca.


Un clima disteso. Con Barack Obama che dispensa ottimismo sui negoziati diretti. E arriva addirittura a tessere le lodi di Benjamin (Bibi) Netanyahu, dicendo che (come Rabin) è disposto «ad assumersi rischi per la pace». Che cosa sta succedendo davvero nei rapporti tra Israele e Stati Uniti? Viene da chiederselo dopo l’incontro più volte rinviato e svoltosi martedì alla Casa Bianca. Stavolta non ci sono state gaffe dell’ultimo minuto e nemmeno diktat di Washington. E c’è chi si è già affrettato a dire che – con l’avvicinarsi delle elezioni di mid-term, in programma a novembre – Obama ha già fatto dietrofront per non perdere l’appoggio del voto ebraico.

Probabilmente non era vera ieri la presunta svolta di Washington nei rapporti con Gerusalemme come non è vero oggi che Obama abbia già scaricato i palestinesi. Come al solito bisogna provare a decifrare i segnali un po’ più profondi dietro le strette di mano. E ci facciamo aiutare da tre articoli apparsi all’indomani del vertice sui siti del Medio Oriente. Partiamo dall’analisi di Aluf Benn, pubblicata su Haaretz, secondo cui Obama è passato dal bastone alla carota nella sua strategia nei confronti di Netanyahu. Il premier israeliano è tornata a casa senza dover sostanzialmente concedere niente. E i veri sconfitti del momento – secondo Benn – sono i laburisti: se per Obama Netanyahu adesso è diventato un partner affidabile nel processo di pace, perché mai dovrebbero uscire dal governo? Il premier israeliano, però, non deve far troppo affidamento su questo «nuovo Obama». Perché il suo è un atteggiamento legato alla situazione contingente (vedi le elezioni di novembre in arrivo). Ma l’amministrazione americana ha assolutamente bisogno di incassare un successo in Medio Oriente. E, quindi, se la carota non dovesse portare da nessuna parte c’è sempre tempo per tornare al bastone.

Un’analisi in qualche modo complementare è quella proposta da Arutz Sheva, l’agenzia vicina al mondo dei coloni. Che grida al successo e al rientro nei ranghi di Barack. Affrettandosi a dirci che – proprio mentre era in corso il vertice a Washington – il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman in Finlandia dettava la linea: «Non pagheremo nessun prezzo per la ripresa dei negoziati diretti. E non c’è nessuna possibilità che il congelamento degli insediamenti sia prorogato. Il 26 settembre in Giudea e Samaria la vita tornerà alla normalità». Sarebbe bello sapere che cosa ne pensa Obama (o almeno il suo inviato per il Medio oriente George Mitchell) di queste dichiarazioni. È dunque evidente che – al di là dei sorrisi di queste ore – è a settembre che si capirà come stanno davvero le cose. Perché è impensabile qualsiasi negoziato diretto con i palestinesi se le costruzioni negli insediamenti riprendono in quella maniera massiccia che sembra evocare il numero di progetti nel cassetto in Israele.

In questo quadro è molto interessante anche l’editoriale pubblicato dal quotidiano libanese The Daily Star. Che – contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare – non si scaglia contro il dietrofront di Obama, ma sembra invece scommettere sul fatto che qualcosa ormai nei rapporti tra Israele e gli Stati Uniti è cambiato. Cita in particolare le parole del generale David Petreus sui danni che un sostegno incondizionato a Israele sta provocando agli Stati Uniti nel mondo arabo. E sostiene che questa sia un’opinione sempre più diffusa nei circoli di Washington. «La nuova realtà richiede cambiamenti sul terreno, non giochetti a uso e consumo dei fotografi. L’incontro di martedì è stato solo cosmesi». Vedremo a settembre se queste speranze sono fondate.

Clicca qui per leggere l’articolo di Aluf Benn su Haaretz

Clicca qui per leggere l’articolo di Arutz Sheva

Clicca qui per leggere il commento di The Daily Star

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