Ricordo, due anni fa, la visita a Milano di mons. Luigi Padovese, invitato dai Centri culturali cattolici della diocesi, per svolgere una relazione sulla presenza della Chiesa cattolica in Turchia nell’ambito del convegno «Il coraggio della verità». Prima dell’incontro, nella sala che si andava riempiendo, lo incalzavo chiedendogli notizie circa la vita della Chiesa e delle comunità cristiane in quel Paese, che aveva visto da poco la visita di Benedetto XVI. Lui sorrideva, con lo sguardo mite: «I tempi sono lunghi. Ma io ho speranza, nonostante le difficoltà, che anche la Turchia si possa aprire e che il cristianesimo possa rifiorire».
Mons. Luigi Padovese, il vescovo cappuccino dell’Anatolia, è stato sgozzato dal suo autista il 3 giugno a Iskenderun, nel sud della Turchia (dell’episodio riferiamo anche a p. 4). Una morte orrenda, che ha lasciato sbigottiti e senza parole. E che sembra fare a pugni con l’invito alla speranza che mons. Padovese non si stancava di ripetere.
In quell’intervento di Milano aveva richiamato la Turchia come terra di parresia, come luogo dove la testimonianza cristiana, forse più che altrove, ha comportato lo spargimento del sangue per la fede in Cristo. Aveva citato con commozione don Andrea Santoro, del quale lui stesso aveva officiato le esequie dopo l’assassini o a Trebisonda, il 5 febbraio 2006. Anche a mons. Padovese è toccato di spargere il suo sangue in una terra che ha amato e per la quale ha sempre testimoniato con franchezza la verità che salva.
Intercedi, caro mons. Padovese, da dove ora sei, per la tua Chiesa e per tutte le Chiese del Medio Oriente. Intercedi per la Turchia, culla del cristianesimo, che amavi definire «terra santa della Chiesa».