Sessant’anni di Palestina (e di Israele) visti da un interno familiare. La casa di Elia Suleiman, di suo padre, della sua famiglia, è un osservatorio ironico e disincantato, divertente, persino divertito. «Il tempo che ci rimane» è anzitutto un film che lascia il sorriso. Grammaticalmente semplice e pulito, è una successione di scenette e situazioni al limite dell’assurdo. Una storia faticosa viene narrata con il linguaggio lieve dell’ironia e del bizzarro.
(Milano) – Sessant’anni di Palestina (e di Israele) visti da un interno familiare. Ma niente a che vedere con le asfittiche «due camere e cucina» del cinema italiano di qualche anno fa. La casa di Elia Suleiman, di suo padre, della sua famiglia, è un osservatorio ironico e disincantato, divertente, persino divertito. Il tempo che ci rimane, infatti, è prima di tutto un film che lascia il sorriso.
Costruito su quattro episodi, quattro capitoli temporali di una saga familiare, Il tempo che ci rimane è la storia (quasi) autobiografica del regista e interprete, un arabo israeliano di Nazaret, e della sua famiglia di (come dice lui stesso) «stranieri in patria». Un viaggio che comincia con la capitolazione della città galilea, nel 1948, e che attraversa la Terra Santa per tutta la seconda metà del Novecento, con le sue guerre-lampo e i suoi conflitti perduranti, con gli occhi di un bambino che cresce e diventa uomo, di un padre che matura e diventa vecchio, di una comunità che cammina, eppure, sembra rimanere immobile.
È un bel film, Il tempo che ci rimane. Grammaticalmente semplice e pulito (inquadrature fisse e leggere), la successione di gag, scenette e situazioni al limite dell’assurdo lungo la quale si svolge il racconto è una scelta stilistica decisamente riuscita per narrare una storia faticosa con il linguaggio dell’ironia e del bizzarro. Un po’ burlesque, un po’ pirandelliano, l’umorismo di Suleiman è sempre di qualità elevata, e per di più senza bisogno di troppe chiacchiere (i dialoghi non sono certo predominanti, nell’economia della pellicola). Basta un soldato israeliano che mostra goffamente il fondo dei calzoni, un preside esagitato, o il cannone di un carrarmato che tiene sotto mira la camminata di un palestinese che esce a buttare l’immondizia, per ridere, e ridere amaramente, di questa terra divisa e di questo popolo –appunto – di «stranieri in patria». Con la speranza (sottotraccia) di poter superare il Muro di separazione così come evoca il regista in una delle scene più simboliche del film: con la leggerezza di un’asta per il salto in alto.
Ultima annotazione: come molte altre buone produzioni, quest’opera di Suleiman ha fatto fatica a trovare spazio in Italia. Applauditissimo a Cannes nel 2009 (lo stesso regista aveva vinto il Grand Prix nel 2002 con Intervento divino), il film arriva nelle sale persino dopo l’uscita di molte pellicole presentate a Cannes 2010. Meglio tardi che mai, ma, come al solito, la distribuzione scommette davvero troppo poco sulla qualità.