Israeliani e palestinesi. Se la pace è un’ipotesi
Lo Stato di Israele oggi corre il rischio di una guerra civile, di un sanguinoso scontro armato tra le sue due diverse anime, quella laica e quella religiosa e radicale. A descrivere questo scenario non è la trama di un romanzo di fanta-politica ma, con toni di grande preoccupazione, Menachem Klein, professore all’Università Bar-Ilan di Tel Aviv e capo-delegazione israeliana agli accordi di pace di Ginevra del 2003. Klein è intervenuto a Milano il 29 aprile scorso a una conferenza dal titolo «Gerusalemme -Yerushalayim – al-Quds. Cuore del conflitto, chiave della pace», organizzata per celebrare i vent’anni di attività del Centro italiano per la Pace in Medio Oriente (Cipmo).
«Oggi quello che mi preoccupa è la dimensione della resistenza armata all’interno dello Stato di Israele – ha dichiarato Klein, di fronte a una concentrata platea -. Più si ritarda la pace coi palestinesi, più si allarga il fronte radicale che sostiene i coloni. E quando divideremo la terra, il rischio sarà quello di una violenta guerra civile all’interno di Israele».
Sullo stesso palco, Hanna Siniora, palestinese e cristiano, editore del The Jerusalem Times e co-direttore di Ipcri, l’unico think-tank in cui si confrontano, sui temi della convivenza e della pace, intellettuali israeliani e palestinesi. Ai margini della conferenza, Terrasanta li ha voluti incontrare entrambi, per parlare del futuro del processo di pace e delle sue difficoltà. Da mesi il lavoro dell’inviato americano in Medio Oriente, George Mitchell, e dei membri del cosiddetto Quartetto, non portano ad alcun risultato. L’immobilità, tuttavia, è solo apparente: la pentola della società israeliana continua a ribollire; e non solo in chiave anti-araba. Gli insediamenti sono cresciuti nonostante le proteste internazionali; alcune frange di coloni hanno inaugurato azioni di forza nei confronti dei residenti arabi dei Territori e anche, paradossalmente, dello stesso esercito israeliano. Tanto da essere definiti «feccia», da un alto ufficiale delle forze armate, intervistato ad aprile dal quotidiano Haaretz. Una tensione che potrebbe forse portare allo scenario paventato da Klein.
Se il processo di pace è fermo, tuttavia, secondo Klein e Siniora, la prima causa risiede nella profonda sfiducia che si è ormai radicata nella società civile palestinese e israeliana: «In teoria la società civile israeliana è per la pace – osserva Klein -. Se chiedi all’uomo comune se è per la soluzione dei due Stati, ti dirà: certo, naturalmente. Ma questo solo in teoria. Infatti se gli chiedi: se proprio in questo momento ci fosse una soluzione dei due Stati, saresti d’accordo? No – direbbe -. Non mi fido di loro: voglio sicurezza, loro hanno Hamas; e le giustificazioni abbondano. È come l’attesa del Messia: certo che attendiamo il Messia. Ma quando verrà vedremo se seguirlo… La sfiducia in Israele poi viene anche costruita attraverso campagne mediatiche: una molto violenta ha colpito le organizzazioni per i diritti umani e i Paesi europei che le finanziano; il New Israel Fund, ad esempio, è stato accusato di aver fornito alle Nazioni Unite documenti utilizzati nel rapporto Goldstone sulle operazioni militari a Gaza. Per questo la presidente del Fund, persona estremamente rispettabile, esperta di scienze politiche, membro del parlamento, è stata raffigurata con un grande corno sulla testa in vignette che facevano ricordare le caricature con cui un tempo venivano derisi gli ebrei. Non siamo più negli anni Ottanta o Novanta, quando la società israeliana era più aperta; oggi l’orientamento è cambiato e questo dà maggior potere a chi spinge verso soluzioni estreme. L’attenzione al processo di pace è diminuita».
«Anche la società civile palestinese sta diventando scettica su ogni possibile soluzione politica – prosegue Siniora -. La gente vede che, decennio dopo decennio, i problemi crescono e non diminuiscono nonostante le proposte di mediazione americane ed europee. Questo spinge molti palestinesi a seguire una tendenza religiosa tradizionale. E come risultato crescono i partiti islamici e Hamas in particolare. L’opinione pubblica è delusa anche dalla politica internazionale: quando nel 2006 Hamas ha vinto le elezioni democratiche con lo slogan cambiamento e riforme, lo stesso di Obama, anche l’Europa non ha voluto dialogare con i legittimi vincitori. A mio avviso col dialogo sarebbe stato possibile porre Hamas di fronte alle sue responsabilità di governo e trasformarlo in un partito islamico moderato, più simile a quello turco. Invece così l’Europa ha giustificato l’estremismo di Hamas e ha deluso l’opinione pubblica palestinese».
«Il problema dell’Europa è che in politica estera non parla a una sola voce – continua Klein -: La Norvegia ad esempio parla con Hamas, la Spagna e la Gran Bretagna hanno la loro politica indipendente, l’Italia e la Germania sono filo-israeliane. Questo non facilita la pace. La grossa novità oggi, invece, è ciò che sta avvenendo nell’opinione pubblica americana ed europea. Nelle università e tra gli intellettuali, infatti, verifichiamo che si parla sempre di più di quello che capita in Israele e in Palestina. Delle violenze dell’occupazione e delle carenze della democrazia. E proprio la pressione degli intellettuali potrebbe portare i governi stranieri a spingere Israele a fare passi concreti verso la pace».