Il patriarca dei siro cattolici Ignace Youssef III Younan sarà uno dei presidenti delegati del prossimo Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente. Il numero di maggio-giugno del bimestrale Terrasanta contiene una conversazione di Manuela Borraccino con l'ecclesiastico. Vi si parla soprattutto della drammatica situazione dei cristiani in Iraq. Younan ne prende le difese con toni decisi e una provocazione scioccante. Vi proponiamo alcuni stralci.
Il patriarca dei siro cattolici Ignace Youssef III Younan (65 anni) è tra i quattro ecclesiastici che, su nomina papale, dal 10 al 24 ottobre in Vaticano eserciteranno la funzione di presidente delegato dell’assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi. Nel numero di maggio-giugno il bimestrale Terrasanta pubblica una conversazione di Manuela Borraccino con il patriarca, nel quale viene messa a tema soprattutto la difficile situazione dei cristiani in Iraq. Il presule ne prende le difese con toni molto decisi, che nei mesi scorsi non ha mancato di mettere nero su bianco anche in una lettera inviata al primo ministro iracheno Nouri al-Maliki. Vi proponiamo qui alcuni stralci dell’articolo.
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Basta stragi di innocenti. Basta discriminazioni e pressioni. «È ora di porre fine ai massacri in Iraq e alla drammatica incertezza in cui versano i cristiani dell’intera regione». Il Sinodo, rimarca il patriarca di Antiochia dei siri Ignace Youssef III Younan, deve essere «un’occasione di visibilità» per le minoranze del Medio Oriente ma deve servire soprattutto a «scuotere la comunità internazionale dal silenzio e dall’indifferenza» di fronte a tali ingiustizie. «È tempo di entrare in azione» dentro e fuori la Chiesa, «dicendo con fermezza la verità nella carità ai nostri fratelli musulmani, perché non è tacendo che otterremo giustizia o che faremo progredire le società islamiche». Il carismatico patriarca siriano (…) non usa mezzi termini: «Non chiediamo aiuti né privilegi. Chiediamo né più né meno che il rispetto dei diritti umani fondamentali sanciti dalle Nazioni Unite: queste saranno le premesse del Sinodo» scandisce.
Eletto l’anno scorso a capo della più piccola fra le Chiese d’Oriente con i suoi 150 mila fedeli sparsi nella diaspora, l’energico patriarca ha imposto la questione dei pogrom contro i cristiani in Iraq tra le priorità che la Santa Sede deve affrontare. Dopo gli omicidi mirati a Mosul che hanno colpito giovani sacerdoti siro-cattolici e le loro famiglie, il presule prima ha lanciato dal Libano una campagna di preghiera e di sensibilizzazione pubblica per la pace e la giustizia, poi, il 24 marzo, ha scritto una lettera durissima al premier iracheno Nouri al-Maliki, denunciando la connivenza del governo con i criminali che stanno perpetrando questa caccia ai cristiani nella piana di Ninive e lanciando una provocazione choc: «Se non siete in grado di assicurare la sicurezza ai vostri cittadini, fornite loro le armi affinché possano almeno difendersi da soli».
«Non si poteva più tacere – spiega Younan -. Gli assassini sono andati a cercare nelle chiese e nelle case i nostri giovani sacerdoti, i fratelli, i genitori, per la sola colpa di essere cristiani. E la cosa che ci spaventa di più è che non vengono ricercati né puniti: si dileguano nell’indifferenza delle autorità irachene, pronti a colpire il giorno dopo». Nell’incontro con al-Maliki dell’ottobre 2009 il patriarca aveva ricevuto rassicurazioni che sarebbero state prese misure «attive» per la sicurezza dei cristiani. «Ho richiamato il premier alle sue responsabilità proprio perché nessuno tenta di applicare la giustizia e la legge. Perciò gli ho scritto che i cristiani non sono disposti a farsi massacrare come carne da macello. Essere disposti al martirio non vuol dire che ci faremo uccidere senza difenderci e nel silenzio generale». Parole pesanti come macigni, che sembrano chiamare in causa anche la tardiva reazione della comunità internazionale di fronte all’escalation di violenza. Il patriarca ha mandato ad al-Maliki un messaggio preciso: se non verrà fatto nulla per proteggere i cristiani, verranno indette manifestazioni di protesta in tutte le capitali occidentali contro le ambasciate irachene.
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«Le mie aspettative sul Sinodo – dice il patriarca – non sono diverse da quelle delle altre Chiese d’Oriente: vogliamo giustizia, e il diritto di poter vivere e prosperare nei nostri Paesi dove siamo sì minoranze, come non cessano di ricordarci i nostri governanti, ma non minoranze importate. Eravamo lì prima dell’avvento dell’islam, vogliamo poter esercitare il diritto non solo di praticare il culto ma anche di poter annunciare il Vangelo, e di poter restare cristiani senza venire sottoposti a queste continue minacce e pressioni per diventare musulmani».
Per frenare l’emigrazione, aggiunge, non c’è altra strada che andare al cuore dei problemi che ne sono la causa: «Il Sinodo deve innescare una riflessione profonda sui mali che affliggono il Medio Oriente e che alimentano la tensione permanente nella quale vivono i cristiani, l’insicurezza e l’oppressione che sperimentano nei vari Paesi. Le sirene della globalizzazione e la presenza di parenti e amici oltreoceano esercitano un richiamo fortissimo sui giovani: essi non sono disposti a sopportare in nome della fede quel che i genitori e i nonni hanno tollerato, né a rinchiudersi nei ghetti. “Perché dobbiamo vivere in questo modo?”, ci chiedono. Ed anche noi sacerdoti chiediamo: perché ci viene vietato di evangelizzare, come avviene in tutti i Paesi liberi, democratici e comunque non musulmani?».