Dobbiamo tutti essere esegeti, anche senza avere in mano un diploma. Essere esegeti significa fare uno sforzo per interpretare correttamente un pensiero, una frase, uno scritto, perché le parole possono assumere diversi significati a seconda dei tempi, dei luoghi, delle circostanze, dell’ambito sociale o religioso. Un esempio ne è la prova.
Parlando a una rete televisiva americana della situazione della propria Chiesa, il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I ha detto: «Preferiamo rimanere in Turchia, anche se spesso veniamo crocifiss». L’affermazione ha provocato, in persone del tutto rispettabili nelle alte sfere del Potere, una reazione per lo meno inappropriata.
Usare l’espressione «essere crocifissi» non significa automaticamente venire appesi alla croce come Gesù, Hallaj o altri, a Gerusalemme o a Baghdad.
Il nostro patriarca Bartolomeo, benché unanimemente riconosciuto per la comprensione e la pazienza dimostrate nelle difficoltà che costellano i necessari cambiamenti di mentalità, non meritava di essere frainteso così grandemente a causa della traduzione letterale di una formula cristiana: questa, invece, andava interpretata.
Ho scelto questo esempio per mostrare come tutti noi dobbiamo ricercare il contesto, inseguire l’interpretazione di ciò che mina i nostri incontri, specialmente nell’ambito interreligioso. Quanti cristiani protestano per la violenza di certi versetti del Corano? Non si tratta di accettare tutto, anzi, ma di sapere ciò che pensa chi fa propri questi «versetti dolorosi» così come li analizzano gli autori di un recente libro. «Versetti dolorosi» che si trovano anche nella Bibbia, ad esempio nel libro di Giosué (6,21, oppure nel cap. 10) o nel libro dei Giudici (la figlia di Jefte 11,29-40).
Di fronte a un testo difficile da accettare, dobbiamo anzitutto chiederne l’interpretazione agli amici di quella religione: «Cosa significa questo testo per voi? Ha una grande rilevanza nel vostro modo di credere oppure è superato?». Dobbiamo verificare se al giorno d’oggi l’interpretazione letterale o violenta è universale. Anche di fronte a una spiegazione scomoda ma accettata dalla maggioranza, bisogna vedere se esistono comunque individui che propendono per un’esegesi più aperta e se questa ha una qualche possibilità di diffondersi.
Faccio un esempio personale, ma che credo possa essere valido anche per molte altre persone. Io, che sono francese, sono sempre stato piuttosto reticente di fronte alle parole dell’inno nazionale che molti nuovi cittadini, generalmente immigrati, si rifiutano di cantare negli stadi (motivo per cui vengono rimproverati). Per fortuna non sono un grande tifoso, perché avrei qualche difficoltà a cantare le strofe di quest’inno rivoluzionario. Già da solo il ritornello è difficile da digerire: «Che un sangue impuro bagni i nostri solchi». E dato che più di una strofa è intrisa della stessa salsa violentemente poetica, credo che mi andrebbe subito tutto di traverso. Per riprendermi e accettare queste frasi diaboliche, dovrei concentrarmi sul sentimento più profondo che questi tifosi, di fede incondizionata, portano nell’intimo. Non sono tutti dei guerrafondai, quindi non cantano in senso letterale.
A maggior ragione quando si tratta dei versetti di un libro infinitamente più antico, che sia la Bibbia o il Corano. Scommetto che molti di quei miei compatrioti che interpretano i testi delle altre religioni in senso letterale e secondo il loro metro di intolleranza, che non ammette repliche, non vorrebbero in alcun modo che cambiassimo una virgola della Marsigliese. Per loro, è una cosa sacra!
(traduzione di Roberto Orlandi)