La notizia del giorno in Israele è la vicenda del giornalista di Haaretz Uri Blau e della sua fonte, l'ex soldatessa Anat Kam accusata di spionaggio per avergli passato documenti top secret. La vicenda rilancia il dibattito su libertà di informazione, tutela della sicurezza e ruolo della Corte suprema israeliana.
La notizia del giorno in Israele è la vicenda del giornalista di Haaretz Uri Blau e della sua fonte, l’ex soldatessa Anat Kam accusata di spionaggio per avergli passato documenti top secret. È una vicenda che ha rilanciato il dibattito sulla questione del rapporto tra libertà di informazione e tutela della sicurezza. Ma forse bisognerebbe parlare di più anche di un aspetto solo apparentemente minore: le carte in questione dimostrano che ancora una volta è stata volutamente ignorata una precisa indicazione della Corte suprema israeliana.
Intanto i fatti: da qualche settimana si parlava di un giornalista di Haaretz rifugiatosi a Londra per sfuggire alle attenzioni dello Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano. Solo che su tutta la vicenda gravava il segreto imposto dalla censura militare ai giornali israeliani. Così si è dovuto aspettare che alcuni giornali stranieri cominciassero a parlarne prima di vedere ricostruito – solo giovedì – l’episodio con precisione. E scoprire che – in realtà – Uri Blau (il giornalista in questione) è all’estero da dicembre e Anat Kam, l’ex soldatessa oggi anche lei giornalista, si trova da gennaio agli arresti domiciliari. Che cosa hanno fatto? Da militare lei lavorava nello staff di un pezzo grosso al ministero della Difesa, avendo accesso a documenti riservati. Secondo l’accusa ne avrebbe passati ben 2.000 a Blau. Che a partire da questo materiale avrebbe scritto una serie di articoli. Quello che ha fatto partire l’indagine – però – è un tema molto scottante: il 28 novembre 2008 Uri Blau pubblicò un’inchiesta intitolata Licenza di uccidere, in cui si descriveva nei dettagli (ora sappiamo fornitigli da Anat Kam) come fosse stata decisa un’«esecuzione mirata». Con tanto di «numero massimo di vittime non identificate consentito». E in aperto contrasto con quanto stabilito dalla Corte suprema israeliana nella sua sentenza con cui, il 14 dicembre 2006, ha stabilito sì la liceità della pratica delle «esecuzioni mirate», ma a una serie di condizioni ben precise, prima tra tutte l’impossibilità di procedere a un normale arresto.
Un anno di indagini dello Shin Bet hanno portato evidentemente all’identificazione di Anat Kam, che nel frattempo si è congedata e lavora anche lei come giornalista a Walla, un portale di informazione israeliano. Nel novembre scorso Haaretz ha trattato con lo Shin Bet la restituzione dei documenti, ponendo come condizione la salvaguardia del giornalista e della sua fonte. A dicembre, poi, – come lui stesso racconta in una sua lettera pubblicata da Haaretz – Uri Blau è partito per una prudenziale vacanza in Estremo Oriente. E qui ha ricevuto una telefonata in cui lo si avvertiva che la sua casa era stata visitata e messa a soqquadro da qualcuno che cercava qualcosa. Subito dopo ha saputo degli arresti domiciliari decretati per Anat Kam. E così ha deciso di non rientrate a Tel Aviv e ora si trova a Londra. Lo Shin Bet – da parte sua – sostiene che non tutti i documenti top secret siano stati restituiti e che questo metta in pericolo la sicurezza di Israele.
Su tutta questa vicenda ora è polemica: da una parte c’è Haaretz, che difende a spada tratta Blau e la libertà di informazione. Lo stesso giornalista – nella sua lettera – sostiene di essere a Londra non tanto per sé, ma per difendere l’«immagine del Paese». E in sua difesa si schiera anche Akiva Eldar, una delle firme di punta del quotidiano, che ricorda la brutta abitudine di mettere il timbro top secret sopra tutto ciò che è scomodo. «Gli ufficiali che si dicono sotto choc per ciò che ha fatto Anat Kam – denuncia – sono gli stessi che quando faceva loro comodo hanno passato a me del materiale riservato». Con lo Shin Bet si schiera invece Shmuel Rosner sul Jerusalem Post, facendo notare alcune anomalie di questo caso: una su tutte, il numero molto alto di documenti copiati e passati dalla Kam. Che fa pensare più a un’azione sistematica di una ragazza che vuole sfruttare la sua posizione che a un caso di coscienza come quello celebre di Mordechai Vanunu, il fisico nucleare che passò al Guardian i dettagli sull’arsenale atomico israeliano.
La questione dello spionaggio e del diritto all’informazione rischia però di far perdere di vista il nodo cruciale di questa storia: l’ennesima prova che quanto stabilisce la Corte suprema israeliana rimane lettera morta in nome della sicurezza. Non è un problema da poco. Essendo Israele uno Stato privo di costituzione sono le sentenze dell’Alta Corte l’unica garanzia di un equilibrio saldo tra i poteri e di un rispetto vero dei diritti delle minoranze. Ed è per questo che a Gerusalemme i giudici non si limitano a indicare princìpi generali, ma spesso entrano anche nei dettagli delle scelte. Oggi, però, è sempre più lungo l’elenco dei casi in cui le loro indicazioni sono ignorate nei fatti, perché anche davanti all’Alta Corte ormai si può svicolare adducendo come giustificazioni «ragioni di sicurezza». Ho l’impressione che la debolezza della legge sia uno dei motivi principali per cui la democrazia israeliana oggi è molto meno forte di ieri.
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