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Ridiventare responsabili e capaci d’ascolto

Giorgio Bernardelli
15 aprile 2010
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Ridiventare responsabili e capaci d’ascolto

All'inizio di questa settimana Israele ha celebrato la sua Giornata della Memoria. Come ogni anno, il Paese si è fermato per ricordare i sei milioni di ebrei morti nello sterminio nazista e vivere un momento di autocoscienza collettiva. Qua e là sono emerse interessanti riflessioni per l'oggi. Ne rilanciamo alcune.


All’inizio di questa settimana – il 27 di Nisan, che quest’anno cadeva il 12 aprile – Israele ha celebrato lo Yom-ha-Shoà, la sua Giornata della Memoria. La differenza nelle date è dovuta al fatto che qui si celebrava già prima che il 27 gennaio divenisse nel resto del mondo una data simbolo. Come ogni anno – dunque – pochi giorni dopo Pesach il Paese si è fermato per ricordare i sei milioni di ebrei morti nello sterminio nazista. E come ogni anno per gli israeliani è stato un momento di autocoscienza collettiva.

Nelle celebrazioni ufficiali il pensiero dominante è stato quello di sempre: l’idea di Israele come baluardo per la difesa contro il ritorno dell’antisemitismo. A Yad Vashem il premier Benjamin Netanyahu non ha mancato di proporre ancora una volta l’accostamento con la minaccia iraniana, il suo cavallo di battaglia preferito. Ci piace, però, segnalare qui anche altre due riflessioni pubblicate su altrettanti quotidiani.

La prima, apparsa su Yediot Ahronot, porta la firma di Yair Lapid, uno dei più noti giornalisti israeliani. Lapid non è un uomo di sinistra e infatti nella prima parte dell’articolo non manca di prendersela con quelli che rinfacciano a Israele che «Auschwitz non può essere una scusa per giustificare tutto». La nostra sopravvivenza è fragile – sostiene – e sappiamo di non poter contare sull’aiuto del mondo. Però è interessante che proprio a partire da queste premesse Lapid arrivi a porre comunque la questione etica: la Shoah dice, non ci ha insegnato solo a difenderci, ma anche che una parte importante della nostra sopravvivenza dipende dalla moralità umana. «L’Olocausto – scrive – ha cambiato la nostra percezione della moralità non solo perché ci ha fatto riscoprire che la moralità è l’unica forza in grado di opporsi al male assoluto, ma anche perché ci ha portato a spostare l’accento dalla società all’individuo». Lo si è visto nel coraggio dei Giusti tra le nazioni, ma anche nella burocratica compiacenza di tutti coloro che hanno collaborato alla macchina dello sterminio, e persino nel comportamento degli ebrei stessi nei campi della morte. «Se questo però è vero – continua Lapid – di fronte ai pericoli di un nuovo Olocausto noi non dobbiamo limitarci a sospettare degli altri; dobbiamo anche sospettare di noi stessi. La moralità prevalente che ci circonda oggi non sta forse paralizzando la nostra capacità di analizzare da noi stessi la realtà, di tirare le nostre conclusioni e di scegliere personalmente ciò che è bene e ciò che è male? E, inoltre, definire la sopravvivenza come il nostro valore assoluto non rende impossibile per noi assumere decisioni morali, quando il mondo ci appare nel suo insieme come una sofisticata macchina di sterminio che aspetta solo la sua occasione per attaccarci?».

Sono riflessioni interessanti quelle di Lapid. Domande aperte che fanno capire molto bene come l’equilibrio sia un’impresa difficile e come non si possa liquidare la questione con risposte facili. Dei punti fermi, però, ci devono essere. E allora è importante anche quanto scritto sul Jerusalem Post da Michael Schwartz, dell’associazione Rabbis for Human Rights, sempre in occasione dello Yom-ha-Shoà. Perché Schwartz parla del legame tra la Shoah e la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Documento – ricorda – nella cui formulazione, avvenuta proprio all’indomani della grande tragedia del Novecento, ebbe un ruolo fondamentale un ebreo, il giurista francese René Cassin. «Una risposta veramente ebraica all’Olocausto – scrive Schwartz – sarebbe smetterla con la paura infinita dei nemici che possono distruggerci, e capire che rendere più forte la capacità di Israele e della comunità internazionale di difendere i diritti dell’uomo è la migliore difesa del popolo ebraico e di tutti gli altri popoli contro quel tipo di male le cui vittime oggi ricordiamo».

Un’ultima annotazione collaterale sul tema della Shoah: uno dei rischi della memoria sono anche i riflessi condizionati. È interessante per questo leggere anche un intervento di rav Alon Goshen-Gottstein, uscito sempre in questi giorni ancora sul Jerusalem Post. Goshen-Gottstein è il direttore dell’Elijath Interfaith Institute, un importante organismo interreligioso di Gerusalemme. Questo rabbino ha fatto la cosa più naturale del mondo: è andato a leggersi che cosa ha detto davvero padre Raniero Cantalamessa in quella predica del Venerdì Santo che ha scatenato un putiferio nelle comunità di mezzo mondo. Questo non ha cambiato la sua opinione contraria all’accostamento tra le persecuzioni antisemite e le critiche alla Chiesa sulla questione pedofilia. Però gli ha fatto scoprire ciò che nessuno ha raccontato. E cioè che in quella stessa predica, nella basilica di San Pietro il giorno del Venerdì santo (con tutto ciò che questo significa per la memoria ebraica) Cantalamessa ha rivolto il suo augurio agli ebrei per la festa di Pesach citando anche passi della Misnah e dell’Haggadah. Con coraggio Goshen-Gottstein scrive che questa notizia è molto più importante di quel paragone sbagliato. «Siamo stati dei pessimi ascoltatori», conclude. Anche questa, forse, è una lezione su cui riflettere.

Clicca qui per leggere l’articolo di Yair Lapid

Clicca qui per leggere l’articolo di Michael Schwartz sul Jerusalem Post

Clicca qui per leggere l’articolo di rav Alon Goshen-Gottstein 

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