Gli episodi di violenza che hanno toccato nelle scorse settimane Gerusalemme, riportando la mente ai tragici momenti dell’intifada, vanno presi sul serio e non sottovalutati. Si collocano infatti in un quadro (l’inclusione di alcuni siti cari anche all’islam tra i luoghi patrimonio dell’ebraismo, la dichiarazione del governo israeliano circa la nuova, massiccia costruzione di insediamenti a Gerusalemme Est, la vicenda del cimitero musulmano di Mamilla) che non va certo nel senso della ripresa dei negoziati e che non mira a disarmare la mano di Hamas, sempre più paladina della causa palestinese.
Non è possibile prevedere a quali conseguenze porterà il clima attuale. Preghiamo Dio che non siano nefaste. Ma per costruire un futuro di pace è necessario lavorare per rafforzare la fiducia tra le persone, non il risentimento. Dopo gli annunci di Annapolis (nel 2008 Bush dichiarò che si sarebbe giunti alla pace in un anno!) e dopo lo schiaffo dell’annuncio – di fronte al vice-presidente Usa Joe Biden – dei 1.600 nuovi alloggi a Gerusalemme Est, a essere pericolosamente ferita sembra essere la fiducia dei palestinesi di arrivare alla costituzione di un proprio Stato usando strumenti pacifici. La continua costruzione di insediamenti nelle zone occupate, mentre si parla di negoziati, come può essere interpretata se non come l’intenzione da parte di Israele di non abbandonare mai più i Territori e di non concedere alcuna autodeterminazione ai palestinesi? La politica unilaterale sulle nuove colonie, oltre a isolare ulteriormente Israele, rischia d’innescare una pericolosa spirale di violenza e di far tramontare ogni possibile accordo di pacifica convivenza.