Per il terzo anno consecutivo il cinema israeliano ha piazzato una sua pellicola nella cinquina tra cui è stato scelto l'Oscar per il miglior film straniero. Alla fine non ha vinto (la statuetta è andata al film argentino El secreto de sus ojos), ma Ajami - firmato insieme dall'ebreo Yaron Shari e dall'arabo Skandar Copti - ha comunque fatto molto discutere in Israele. Ajami è un racconto molto crudo della vita nell'omonimo quartiere di Jaffa. In questo film si parla di criminalità, di violenza, di droga, di rapporti tra clan, di poliziotti corrotti, ma il tema di fondo è quello della componente araba della società israeliana.
Per il terzo anno consecutivo il cinema israeliano ha piazzato una sua pellicola nella cinquina tra cui è stato scelto l’Oscar per il miglior film straniero. Alla fine non ha vinto (la statuetta è andata al film argentino El secreto de sus ojos), ma Ajami – firmato insieme dall’ebreo Yaron Shari e dall’arabo Skandar Copti – ha comunque fatto molto discutere in Israele.
Intanto due parole sul film: rispetto alle due pellicole che l’avevano preceduta alla kermesse hollywoodiana (Beaufort nel 2008 e Valzer con Bashir nel 2009), va detto che Ajami non è un film che parla direttamente del conflitto. È infatti un racconto molto crudo della vita nell’omonimo quartiere di Jaffa, l’antico porto arabo che oggi è praticamente un quartiere di Tel Aviv. In questo film si parla di criminalità, di violenza, di droga, di rapporti tra clan, di poliziotti corrotti. Non a caso qualcuno lo ha accostato al nostro Gomorra. Anche se certamente – come ovunque – anche ad Ajami si riflettono le contraddizioni del conflitto, che nel film hanno soprattutto il volto dei rapporti non facili tra cristiani e musulmani. È un film interessante, perché mostra un aspetto della società israeliana per molti versi rimosso eppure non meno inquietante rispetto ad altri. Il tutto significativamente girato insieme da due giovani registi, uno di famiglia ebraica e l’altro arabo cristiano.
In un certo senso per le autorità israeliane Ajami era un film molto meno problematico rispetto a Valzer con Bashir: la denuncia – in questo caso – è più sociale che politica, gli arabi non ne escono affatto come stinchi di santo; e poi c’era l’immagine dell’ebreo e dell’arabo che in Israele lavorano insieme su un progetto, che è sempre una bella cosa. Fino alla vigilia, probabilmente, a Gerusalemme qualcuno ci sperava sul serio in questo Oscar. Ancora pochi giorni fa persino sul blog dedicato a Israele di Free Republic – un sito americano legato all’ala più conservatrice dei Repubblicani – era apparso un articolo dal titolo eloquente: Ajami è buono per gli ebrei. Certo, è una recensione che calca la mano a modo suo, descrivendo sostanzialmente gli arabi come gente da slum la cui unica possibilità di una vita dignitosa è stare al loro posto nello Stato degli ebrei. Non è ovviamente questo l’intento del film, ma si tratta di una lettura comunque sintomatica.
A rompere le uova nel paniere – alla vigilia della cerimonia degli Oscar – ci ha pensato Skandar Copti, uno dei due registi, quello che ad Ajami ci è cresciuto. Con una dichiarazione che ha sollevato un putiferio in Israele: «Questo film – ha detto – rappresenta Israele agli Oscar, ma io no; non posso rappresentare una nazione che non mi rappresenta». Dietro a queste parole – come è stato detto – c’è probabilmente anche la vicenda personale di Copti, il cui fratello qualche settimana è stato arrestato dalla polizia proprio ad Ajami. Ma sarebbe sbagliato leggerle solo così. Alla fine la passerella degli Oscar ha svelato il vero nervo scoperto di Israele oggi, che – come abbiamo ricordato più volte in questa rubrica – è la questione degli arabi israeliani. Dietro a quelle parole ci sono le sparate di Avigdor Liebermann, i progetti di legge contro la celebrazione della Nakba, il tentativo di escludere due partiti arabi dalle ultime elezioni…
È una questione complessa e per certi versi anche contraddittoria. Vale dunque la pena di leggere per intero due articoli di segno opposto che segnaliamo qui sotto. Da una parte l’editoriale di Haaretz, in cui si sottolinea come Copti in fondo sia un «privilegiato»: un trentacinquenne nato e cresciuto in Israele, in una società che gli ha offerto molte opportunità, non ultima quella di girare questo film. Se anche lui arriva a compiere queste affermazioni – commenta il quotidiano liberal – è il segno che il problema ormai è davvero molto serio. All’opposto – come sottolinea Hannah Brown sul Jerusalem Post – che gli piaccia oppure no, è proprio perché è israeliano che Copti ha avuto la possibilità di esprimersi in questo modo a Hollywood.
Due facce della stessa medaglia. Probabilmente proprio quello che un film come Ajami, alla fine, racconta davvero.
Clicca qui per vedere la scheda di presentazione e il trailer di Ajami
Clicca qui per leggere l’articolo di Free Republic
Clicca qui per leggere l’editoriale di Haaretz
Clicca qui per leggere il commento del Jerusalem Post