Edito da Carocci, Il Libano contemporaneo di Rosita Di Peri, è un saggio agile che affronta la storia del Paese dei Cedri dalla formazione dell'Emirato del Monte Libano nel 1586 fino alle elezioni del giugno 2009. La chiave di lettura della storia libanese sta, secondo l'autrice, nei frutti del «confessionalismo», che costringe però a pagare un caro prezzo.
C’è una linea sottile che descrive l’equilibrio dettato dall’accostamento di più religioni e più confessioni all’interno di uno Stato del Medio Oriente; in Libano essa penetra le forme di governo, sfida la capacità di un Paese di avere un’identità e un’arma proprie, condiziona la possibilità di perseguire una politica nazionale unitaria indipendente da pericolose e ambigue influenze esterne. In Libano, la convivenza di fedi diverse è un fatto tanto reale e importante da essere istituzionale. Eppure ciò non ha sempre garantito frutti positivi.
Edito da Carocci, secondo un progetto editoriale che include lavori analoghi su India, Afghanistan, Caucaso, Pakistan, Iran e Israele, Il Libano contemporaneo di Rosita Di Peri, è un saggio agile che affronta la storia del Paese dei Cedri dalla formazione dell’Emirato del Monte Libano nel 1586 fino alle elezioni del giugno 2009, con maggiore attenzione, come suggerisce il titolo, per il periodo susseguente all’indipendenza del 1943.
La chiave di lettura della storia libanese è da cercare, secondo l’autrice, nei frutti del «confessionalismo», cioè nella pratica politica di predefinire, sulla scorta delle confessioni maggiormente influenti nel Paese sin dalle sue origini, le quote di rappresentanza parlamentare da assegnare agli esponenti delle diverse comunità. L’autrice spiega come sunniti, sciiti, drusi e cristiani maroniti, per citare le comunità più influenti, abbiano così trovato più volte la formula politica, tuttora assai originale, per gestire il potere in una nazione unica nel panorama mediorientale, affidando il compito di governare a politici in molti casi già al comando di sottogruppi bellicosi, in molti casi teste di ponte di politiche estere. Tutto ciò con un prezzo alto fatto di problematiche, piuttosto lontane dal sentire occidentale, tuttora irrisolte, interdipendenti, cariche di conseguenze.
Il Libano è stato messo sotto scacco dallo strapotere delle grandi famiglie cristiane e musulmane e da conseguenti clientelismi che hanno intaccato i gangli del potere con ricaduta grave sull’efficienza degli esecutivi, mentre la forbice tra ricchi e poveri si è progressivamente dilatata. Non ha avuto un esercito vero e proprio, e, in sua vece, ha ospitato la realtà, centrifuga eppure rappresentata al governo, delle milizie (confessionali o politiche). Non ha padroneggiato i propri confini, soprattutto a sud, dove il Libano tollera sin dai tempi degli accordi del Cairo del 1969 il caso di una fascia territoriale totalmente sacrificata alla politica estera, contesa dalle armi di chi attacca Israele e le armi poste a sua difesa.
Beirut ha dovuto tollerare la presenza invasiva di potenze esterne, soprattutto Siria e Israele, capaci di dettare i passi politici di un Paese più volte frenato, proprio per questo, nel suo sviluppo economico e sociale; subisce continuamente lo spettro della guerra, che ha assunto nel passato la forma del conflitto civile o di ripetuti, talvolta devastanti, attacchi militari dall’estero; ha vissuto la presenza quasi inestirpabile (nel caso siriano) di un esercito straniero occupante.
Sembra fragile, il Libano. Eppure ha saputo garantirsi un’esistenza mirabilmente sfuggente ai progetti dei suoi potenti vicini: non è parte del grande Israele, non è parte della grande Siria. La sua identità, che è per scelta araba, ma non islamica, non si è arroccata, come altrove, sui fondamentalismi; al contrario, la sfida di sviluppare un equilibrio nazionale pluri-confessionale che non contraddica le esigenze di una democrazia moderna, è una missione realizzabile per il Libano in ordine al suo bene e a quello del Medio Oriente.