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Jeremy Milgrom e i sogni di un rabbino

01/02/2010  |  Milano
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Nei giorni scorsi era in Italia per una serie di incontri pubblici il rabbino Jeremy Milgrom. Nato negli Usa, ha studiato al seminario teologico ebraico di New York e si è trasferito in Israele nel 1968. Gran parte della sua vita l'ha dedicata all'impegno per i diritti umani e la pace in Medio Oriente. Nel 1988 è stato tra i fondatori del movimento Rabbini per i diritti umani ed è tra i pionieri del dialogo interreligioso con palestinesi musulmani e cristiani. Veterano dell'esercito israeliano, ha lasciato, deluso, quella che ancora considera la sua patria per trasferirsi in Europa. Lo abbiamo incontrato a Milano.


Jeremy Milgrom è un rabbino nato negli Usa. Ha studiato al seminario teologico ebraico di New York e si è trasferito in Israele nel 1968. Gran parte della sua vita l’ha dedicata all’impegno per i diritti umani e la pace in Medio Oriente. Nel 1988 è stato membro fondatore del movimento Rabbini per i diritti umani. Pioniere nel dialogo interreligioso con palestinesi musulmani e cristiani, ha fondato, insieme al reverendo anglicano palestinese Shehadeh Shehadeh, l’associazione Religiosi per la pace. Veterano dell’esercito israeliano, ha ottenuto di essere esonerato dagli obblighi di riservista dopo otto anni di battaglie legali. Nei giorni scorsi lo abbiamo incontrato a Milano.

Rabbino Jeremy, lei è americano. Perché a un certo punto della sua vita ha deciso di trasferirsi in Israele?
Sono nato negli Stati Uniti e a 15 anni la mia famiglia, che da sempre aveva una lunga tradizione nello studio della Bibbia, mi regalò un viaggio in Israele per approfondire i miei studi biblici. Volli inseguire il sogno della Terra Promessa. A 18 anni tutti i miei compagni si arruolarono nell’esercito, e così anche io sentii il forte bisogno di arruolarmi, considerandolo come un atto dovuto nei confronti dei miei compagni e della patria che mi aveva adottato. Ho creduto fosse mio dovere farlo. Non riuscivo a capacitarmi di come si potesse non amare il mio Paese.
Nel 1971 sono entrato nell’esercito e ho fatto il militare. Se ci ripenso mi sembra così stupido: fu un periodo di estremo isolamento e di solitudine. Con la guerra del Kippur, nel 1973, molti dei miei amici furono uccisi. Ebbi molta paura, ma nonostante questo ritenevo giusto e necessario combattere per avere un futuro di pace. Per tre anni ho fatto il militare e per altri 16 il riservista dell’esercito, ma iniziavo a provare una sorta di empatia per i genitori di chi veniva ucciso dall’altra parte. Oggi sono definitivamente uscito dall’esercito. Sono padre e nonno e da israeliano so che anche i miei nipoti diventeranno dei soldati. Non hanno scelta.
Sono stato tra i fondatori dell’associazione Rabbi for human rights, nel 1988, e ho lavorato con i beduini. Oggi, però, ho preso le distanze da questa associazione perché è diventata troppo conservatrice, anche dietro le influenze di Ehud Barak e Benjamin Nethanyau. In generale l’opinione pubblica israeliana è diventata molto conservatrice, io invece mi sento più radicale, sono sionista solo in una minima parte di me stesso, sono molto lontano e distante da questa forma di sionismo che permea la società israeliana.

Lei oggi vive in Germania. Perché se ne è andato da Israele e che cosa può fare l’Europa per la pace in Medio Oriente?
Quando lasciai definitivamente gli Stati Uniti il motivo principale era legato al coinvolgimento nella guerra del Vietnam: non potevo accettare di vivere in un Paese che negava i diritti alle persone di colore. Pensavo che in Israele tutto questo non ci fosse, che fosse stato superato. Invece purtroppo non è così. Per anni ho preso parte attiva alla vita pubblica israeliana, come rabbino, come insegnante, e pensavo che il mio lavoro, con la mia testimonianza nella vita di ogni giorno potessi contribuire a uno Stato democratico. Mi resi conto però che in quello che io pensavo fosse il Paese migliore al mondo, quello che sentivo il mio Paese, si stava sviluppando una coscienza in cui la violenza superava ogni aspettativa, dove c’erano enormi, troppe, differenze e disparità di ricchezze tra chi è ebreo e chi non lo è. Insomma, quello che avevo cercato di evitare, andandomene dagli Stati Uniti, lo stavo riscontrando in Israele. Ci soffrii molto, per me fu una grande ferita, e iniziai ad avere dubbi sullo Stato ebraico. La mia sofferenza però era duplice perché mi sentivo combattuto tra questi sentimenti di rabbia verso quello che vedevo accadere e l’amore che provavo per Israele, che era diventato a tutti gli effetti la mia patria. Lo stesso motivo per cui ho lasciato gli Stati Uniti mi ha portato a lasciare anche Israele per l’Europa. Spero tanto nell’attivismo dell’Europa nei confronti della questione israelo-palestinese. L’Europa da sempre è sensibile al problema. Oggi, poi, c’è una forte presenza musulmana in Europa. Spero che questo contribuisca a svegliare le coscienze. Mi auguro che l’Europa faccia di più per il Medio Oriente, in modo particolare per fermare l’embargo a Gaza. La Striscia ha bisogno di rinascere, deve essere ricostruita. Non c’è più tempo da perdere, prima che sia troppo tardi.

Secondo lei è più probabile una soluzione al problema israelo-palestinese con la formula due Stati per due popoli o con la creazione di uno stato binazionale?
Non vedo una soluzione a breve termine al problema, né in un senso né nell’altro. Innanzitutto perché uno dei perni del problema è la questione dei rifugiati. Finchè non si risolverà questo problema non si potrà affrontare la questione di uno Stato palestinese. Se Israele non rinuncerà all’ossessione di avere una maggioranza ebraica nel Paese sarà molto difficile un’intesa. E finchè l’opinione pubblica generale, anche fuori da Israele, si riconosce in questo tipo di sionismo sarà difficile qualsiasi tipo di colloquio.

Se lei fosse un palestinese, riuscirebbe a riconoscere Israele come Stato?
Sono molto triste e ferito da quel che fa Israele: penso che la storia del popolo israeliano sia differente. Malgrado lo Stato sia stato creato in maniera ingiusta e con la frode, togliendo la terra a un popolo, non si può pensare che questo Stato finisca. Non sono uno stratega, mi sento più un sognatore. Per vivere insieme penso che siano anche i palestinesi a dover dare una risposta di non violenza, solo così si potrà ottenere la coesistenza. Bisogna attingere dalla propria spiritualità per reagire con la non violenza e tralasciare di attingere dal proprio istinto che porta ad agire con violenza.

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