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I melchiti e la Messa in arabo nel cuore dell’Urbe

08/02/2010  |  Roma
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Dal 21 gennaio scorso, nella capitale italiana, i cattolici di rito melchita ogni giovedì pomeriggio celebrano la Messa integralmente in arabo, la prima (e l'unica pubblica) nella diocesi di Roma. Siamo andati anche noi alla chiesa di Santa Maria in Cosmedin, in piazza della Bocca della Verità per prendere parte all'assemblea liturgica. Dopo la Messa, l'archimandrita Mtanios Haddad, a Roma da tre anni dopo aver svolto il suo ministero a Gerusalemme, ci spiega il senso dell'iniziativa e offre qualche schizzo della comunità melchita presente in città.



Fuori piove e impazza il traffico che tiene quasi perennemente in ostaggio il Foro Boario e il Circo Massimo. Dentro c’è silenzio, odore forte di incenso e di olio che brucia nelle lampade. Fuori, per i cattolici latini, liturgicamente è il giovedì della III settimana del Tempo ordinario. Dentro, siamo alla XVI settimana dopo la Santa Croce. Fuori, tra gli impiegati dei vicini uffici comunali che escono dal lavoro, è un tripudio di romanesco. Dentro, salutandosi, ci si scambia in arabo la «Salam».

Eppure, siamo nello stesso posto. "Fuori" è piazza della Bocca della Verità, centro più che storico di Roma, con i turisti in fila per la foto con la mano dentro il millenario mascherone di pietra che, come da leggenda, è capace di mozzare le dita ai bugiardi. "Dentro" è la basilica di Santa Maria in Cosmedin, uno splendore architettonico dell’VIII secolo dove si celebra secondo il rito della Chiesa cattolica greco-melchita. C’è la messa ogni giorno, in un mix di greco, italiano e inglese. Dal 21 gennaio, però, è partita una scommessa: una celebrazione, al giovedì pomeriggio, integralmente in arabo. La prima (e l’unica) nella diocesi di Roma.

Quando entriamo, nella penombra, ci sono solo due fedeli che mormorano piano con un libro in mano. A lato dell’altare, tre ragazzi dai tratti mediorientali armeggiano con i microfoni. Poi, alla spicciolata, la piccolissima navata si riempie: una trentina di persone in tutto.

Arriva anche il sacerdote, che prima di cominciare, ci spiega sorridente, e in italiano, che d’ora in avanti si parlerà soltanto arabo, ma che nel corso della celebrazione si preoccuperà di indicare a chi non pratica la lingua il numero di pagina sul libretto. E di conseguenza i tre ragazzi del microfono distribuiscono un foglietto con le letture e un volume: il testo della «Divina Liturgia» di san Giovanni Crisostomo, in arabo traslitterato e con il testo italiano a fronte. Per gli altri, invece, c’è la versione con i caratteri originali.

Il rito comincia. Il celebrante spande l’incenso, abbondante, sull’altare, sulle icone, sull’assemblea. Intanto, i tre ragazzi di prima, tornati al microfono, intonano in arabo la «Grande Dossologia»: «Gloria a te che ci hai mostrato la luce! Gloria a Dio nel più alto dei cieli, pace sulla terra, e per gli uomini benevolenza».

Fa effetto, in questo pezzo di Roma dove, nelle basiliche romaniche e rinascimentali, risuona ancora spesso il gregoriano, sentire cristiani che salmodiano in questa lingua così melodiosa che sembra fatta apposta per pregare, e pregare cantando. Nell’assemblea, molti seguono in silenzio, un po’ spaesati. Sono – scopriremo di lì a poco – turisti stranieri, romani curiosi che hanno letto la notizia sui quotidiani della città, qualche cultore del rito bizantino, un paio di studenti di lingue orientali. Gli altri, glielo si legge in faccia, si sentono visibilmente a casa loro, e rispondono tranquilli: «Amìn».

Dopo la proclamazione del Vangelo (la parabola del fariseo e del pubblicano, dal capitolo 18 di Luca), il sacerdote tiene la sua omelia. Inizia in italiano, per spiegarci che oggi per il calendario orientale inizia il «Triodion», le tre settimane che precedono la Quaresima e che sono un anticipo di preparazione, con il digiuno, alla Pasqua. Ad aiutarci, ci dice ancora, è la figura del pubblicano, che ci indica la via dell’umiltà. Poi la predica continua in arabo.

E il rito va avanti così, quasi tutto cantato, sempre molto partecipato, fino alla distribuzione del pane benedetto, l’«Antidoro», quello non consacrato avanzato dal rito di comunione. Un gesto di fraternità che spiazza un po’ i "latini".

Così come molto spiazzante è l’invito, rivolto a tutti i fedeli, a prendere un caffè insieme nei locali adiacenti alla basilica. Finiamo per ritrovarci quasi tutti in un salottino, dove ci aspetta anche il dolce. Il caffè ce lo offre Naman Tarcha, il giovane solista del coro. Lui arriva dalla Siria: «Sono cresciuto nella parrocchia di Aleppo, tra i francescani, poi dieci anni fa sono venuto a studiare Scienze della comunicazione all’Università salesiana». Adesso fa il giornalista e dirige il centro culturale di Santa Maria in Cosmedin, che si chiama «Bocca della Verità». Continua Naman: «Quando sono arrivato qui, all’inizio, sentivo il bisogno di sentirmi a casa anche nella fede. Molti vengono qui per lo stesso motivo».

«A Roma non esiste una vera e propria comunità cattolica melchita», ci racconta padre Mtanios Haddad, che intanto ha smesso i paramenti e si gusta anche lui il caffè chiacchierando con i fedeli. «L’Italia non è una nostra meta classica di emigrazione, la diaspora melchita è concentrata soprattutto verso le Americhe e l’Australia». L’archimandrita Haddad, siriano, è monaco basiliano salvatoriano. Qui a Roma è rettore di Santa Maria in Cosmedin e procuratore del patriarca di Antiochia dei melchiti, Gregorio III Laham: «Sono a Roma da tre anni, prima ero a Gerusalemme come vicario patriarcale. Qui in città, a parte una ventina di studenti, c’è solo un altro sacerdote melchita residente, il procuratore del mio ordine religioso».

Ma allora, domandiamo, se non c’è la comunità, chi frequenta la basilica? «I melchiti romani, di solito, la domenica vanno a messa nelle loro parrocchie di residenza. Ogni tanto qualcuno di loro, e magari qualcuno di passaggio, viene qui, dove celebriamo la liturgia in un misto di lingue che va dall’italiano all’arabo passando per il greco e l’inglese. Il nostro, più che altro, è un servizio di presenza». E allora perché questa scelta della messa integralmente in arabo? «Perché volevamo andare incontro ai tanti che hanno bisogno, ogni tanto, di riavvicinarsi al loro rito e alla loro lingua. Intendiamoci, non vogliamo fare proselitismo, né sradicare i fedeli dalle parrocchie dove si sono inseriti. Infatti abbiamo scelto di celebrare in arabo una volta alla settimana di giovedì e non di domenica, anche se poi oggi abbiamo deciso di leggere i testi di domenica scorsa per sottolineare l’inizio del Triodion».

Intanto si fa avanti qualcuno che scambia qualche parola con padre Haddad direttamente in arabo. Ci sono libanesi, palestinesi, siriani, giordani. C’è chi domanda indicazioni per i documenti di un matrimonio: sposa melchita canadese, sposo anglicano britannico. «Un po’ complicato», commenta col sorriso il monaco.

Naman, nel frattempo, ci dà un volantino con le attività del centro culturale che dirige: corsi di arabo per adulti e ragazzi, formazione alla musica bizantina, all’iconografia, al mosaico, biblioteca e mediateca. «Messa in arabo e centro culturale, per noi, sono un’occasione importante», riprende padre Haddad dopo aver risolto l’intricato problema burocratico-matrimoniale. «Sono la possibilità di testimoniare la nostra identità araba e cristiana contemporaneamente. Troppo spesso in Italia c’è un’identificazione pressoché assoluta tra arabi e islam, anzi, per essere precisi, tra arabi e fondamentalismo islamico. Qui a Santa Maria in Cosmedin abbiamo le porte aperte per tutti: il tratto distintivo della nostra cultura è la fraternità. La dimostriamo anche con questo caffè condiviso». Una ragazza saluta in arabo e va via. Il monaco ci traduce: «Si chiama Celine, è giordana. Ha detto che tornerà giovedì. Speriamo: la porta resta aperta».

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