Il Sinodo del prossimo ottobre sul Medio Oriente «sarà importante per tornare a parlare dei cristiani orientali, non perché ci sia da aspettarsi chissà quali linee strategiche». La pensa così l'islamologo Maurice Borrmans, che spiega: «Il Sinodo non ha nessun impatto sulle strutture politiche e sui cambiamenti culturali dei Paesi a maggioranza islamica: men che meno sulle battaglie per la libertà religiosa dei non musulmani». Il missionario dei Padri bianchi non si fa illusioni sullo stato del dialogo islamo-cristiano, come si evince dalla conversazione con Terrasanta.net che vi proponiamo.
Il Sinodo del prossimo ottobre sul Medio Oriente «sarà importante per tornare a parlare dei cristiani orientali, non perché ci sia da aspettarsi chissà quali linee strategiche». E questo perché, è il lapidario giudizio dell’islamologo Maurice Borrmans, «il fondamentalismo islamico è in crescita tanto in Medio Oriente quanto fra le comunità musulmane in Europa, ed il Sinodo non ha nessun impatto sulle strutture politiche e sui cambiamenti culturali dei Paesi a maggioranza islamica: men che meno sulle battaglie per la libertà religiosa dei non musulmani». Missionario dei Padri bianchi, tra i massimi esperti del mondo arabo come ex direttore della rivista Islamochristiana ed ex docente del Pontificio istituto di Studi arabi e islamistica (Pisai), padre Borrmans non si fa illusioni sullo stato del dialogo islamo-cristiano, come spiega in questa conversazione per Terrasanta.net.
Secondo padre Borrmans, una conferma della difficoltà del mondo islamico a interiorizzare il pluralismo e il rispetto della diversità proprie delle società moderne viene anche dalle reazioni delle comunità musulmane arabe e della diaspora di fronte al risultato del referendum che in Svizzera ha bocciato la costruzione di nuovi minareti: «Questa consultazione popolare non era sulla costruzione di moschee, quindi bisogna ben distinguere le due cose – afferma – ed aiutare i nostri amici musulmani a capire che l’assenza del minareto non impedisce l’esercizio del culto. Il minareto è una parte secondaria, architettonica della moschea: esso è uno strumento della chiamata alla preghiera e allo stesso tempo ha un altissimo valore simbolico perché rappresenta una proclamazione di fede, proprio perché tutti sono costretti a sentire con la chiamata del muezzin la professione di fede. Dunque penso che dovremmo spiegare ai nostri amici musulmani che bisogna tener conto del contesto culturale, ambientale, sociologico, religioso delle nostre città».
«Io stesso – racconta – sono stato per tre anni viceparroco in Bahrein: ebbene, nei Paesi del Golfo abbiamo il permesso di avere palazzi ma senza campanili, e fuori non c’è nessuna grande croce. Al massimo c’è una lapide sulla parete che dice che è una chiesa, e un cortile recintato dove svolgiamo le funzioni senza recare disturbo al resto del quartiere: è ora che le minoranze non cristiane in Europa tengano conto di questa “modestia” culturale, per così dire. E credo che anche i nostri politici, come per fortuna si comincia a vedere in Francia, debbano prestare attenzione a questi temi e prevedere certe reazioni in modo che non ci siano malintesi, anziché strumentalizzare questi argomenti e farne argomento di discriminazione o di propaganda politica. Proprio perché alcuni musulmani avanzano pretese che ci siano minareti nelle nostre città, è opportuno aiutarli a capire che ognuno deve stare al suo posto, come noi cristiani facciamo nei Paesi del Golfo costruendo i nostri luoghi di culto nel rispetto dell’ambiente: le maggioranze tengano nel giusto conto i diritti delle minoranze, e queste ultime sappiano rispettare il contesto culturale circostante».
Attento osservatore delle iniziative scaturite nel dialogo islamo-cristiano dopo il discorso di Ratisbona (come l’istituzione del Forum permanente islamo-cattolico, le iniziative del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, quelle della monarchia giordana e del re saudita Abdallah), padre Borrmans allontana facili irenismi: «La Lettera dei 138 (cioè i primi firmatari di una lettera di intellettuali musulmani indirizzata ai leader cristiani di tutto il mondo, intitolata Una parola comune tra noi e voi e resa pubblica il 13 ottobre 2007 – ndr) si rivela essere un documento rilevante nella storia recente del dialogo islamo-cristiano. Incontri, colloqui e congressi non sono mancati negli ultimi anni. Ma come verranno realizzate le premesse espresse al raduno promosso dal re Abdallah a Madrid? Certo, Re Abdallah ha avuto il coraggio di parlare chiaro, lui che veniva da un’Arabia Saudita con un islam di tendenza puritana, ispirato dalla stretta interpretazione wahhabita. E la Lega del mondo islamico che organizzava l’evento si è sforzata di adeguarsi alla volontà del re, pur rimanendo promotrice di quest’islam specialmente conservatore».
«Ma né al raduno della Mecca del giugno 2008 – rimarca Borrmans – né a quello di sei settimane dopo a Madrid si è fatta la minima allusione alla Lettera dei 138: essa sembra rimanere un’iniziativa culturale e politica della sola Giordania e dei suoi amici, e non manca chi vi vede un messaggio specialmente “redatto” per Occidentali. Ogni Paese sembra organizzare il “suo” dialogo interculturale e interreligioso… Certo, tali iniziative sono segnali di speranza sulla strada da percorrere di un dialogo fra musulmani e cristiani non facile. Coloro che vi sono impegnati dovrebbero saperne riconoscere il significato, l’importanza e il valore. Anche perché un’eventuale emulazione spirituale da parte dell’islam potrebbe rivelarsi, nonostante la sua fragilità, una possibile risposta alle sfide della modernità, della tecnicità e della razionalità. Però non credo che il dialogo abbia avuto un’accelerazione: al massimo ci sono attori desiderosi di riprendere la scena. Serve cautela, perché ci vorranno molti anni e forse quello che potremmo fare è aiutarci reciprocamente a fare autocritica, perché c’è tantissima ignoranza e presunzione da entrambe le parti».
Quanto al Sinodo per il Medio Oriente in programma nell’ottobre 2010, per padre Borrmans costituisce soprattutto «un’occasione per far ricordare agli altri che le comunità cristiane esistono». «Guardiamo ai fatti: nel 1995 ci fu un Sinodo speciale per il Libano, eppure questo non ha impedito tante eventi negativi successivi. Quali sono stati i cambiamenti effettivi?». Le Chiese cristiane in Medio Oriente, ricorda, sono divise: «Ciascuna Chiesa locale pensa solo ai suoi fedeli, manca la collaborazione con i cattolici di altri riti e con gli altri cristiani». Dunque quel che c’è da aspettarsi oggi, come 15 anni fa in Libano, è che il Sinodo «ricordi che i cristiani hanno missioni, iniziative e spazi di manovra limitati: per il resto il Sinodo non ha nessun impatto sulle strutture politiche e sui cambiamenti culturali di qui Paesi, quindi non c’è da farsi illusioni».
Il fatto è che non si daranno progressi nel campo culturale, politico e religioso finché non si risolverà il più lungo conflitto della storia contemporanea: «Finché non ci sarà pace fra israeliani e palestinesi, finché la questione di Gerusalemme resterà in sospeso e il Muro di divisione non verrà smantellato non ci può essere alcun progetto costruttivo di convivenza: il Libano ne sa qualcosa…», scandisce il sacerdote. «Il Sinodo non potrà trattare queste questioni, lo sappiamo bene, ma come si può sperare in un miglioramento complessivo del clima se non si va al nocciolo del problema? Se lo stesso presidente Barack Obama si rivela incapace di far sentire la sua voce… Eppure avrebbe strumenti di pressione. E poi c’è il peso degli errori del passato, degli uni e degli altri: anni fa gli apprendisti stregoni d’Israele cercarono di ridurre il peso dell’Olp facendo crescere Hamas, e qual è il risultato oggi? La Striscia di Gaza è uno stato islamico di stretta osservanza… La situazione è talmente confusa che si fatica a ritrovare la speranza».
Padre Borrmans ha curato la pubblicazione degli atti del convegno su don Andrea Santoro che si è svolto nel marzo 2009 a Roma, ora confluiti nel volume Don Andrea Santoro, ponte di dialogo con la Turchia e il Medio Oriente (Urbaniana University Press, Roma, 2009, pp. 224). Nel quarto anniversario della morte del sacerdote fidei donum della diocesi di Roma – andato a servire la Chiesa dell’Anatolia orientale dal 2000 al 2006 e assassinato il 5 febbraio 2006 a Trabzon, in Turchia – padre Borrmans ne elogia «il servizio modesto e umile» a favore del dialogo e la «coerenza evangelica e autenticità spirituale».
«Per don Andrea – ricorda padre Borrmans – il dialogo è in primo luogo un atteggiamento personale ed ecclesiale che realizza quanto san Paolo esige da se stesso e dai suoi discepoli: si tratta di una conversione del cuore, di una coerenza dell’identità e della gioia della condivisione».