Dobbiamo lottare contro i limiti imposti alla libertà religiosa in alcuni Paesi e, in qualche caso, preparare i cristiani al martirio. Lo afferma padre Samir Khalil Samir, gesuita egiziano e islamologo di fama, in un'intervista di Manuela Borraccino, pubblicata nel numero di gennaio-febbraio 2010 del bimestrale Terrasanta e dedicata all'Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente, in calendario in Vaticano il prossimo ottobre. Offriamo ai lettori di Terrasanta.net alcuni passaggi dell'intervista, nel giorno in cui a Roma vengono resi pubblici i Lineamenta, documento che riassume i temi proposti alla riflessione delle Chiese e dei futuri partecipanti al Sinodo.
Il bimestrale Terrasanta, nel numero di gennaio-febbraio 2010 uscito in questi giorni, propone un’intervista di Manuela Borraccino a padre Samir Khalil Samir, gesuita egiziano ed islamologo di fama, sul tema dell’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi dedicata al Medio Oriente, in calendario in Vaticano il prossimo ottobre. Offriamo ai lettori di Terrasanta.net alcuni passaggi dell’intervista, nel giorno in cui a Roma vengono resi pubblici i Lineamenta, documento che riassume i temi proposti alla riflessione delle Chiese e dei futuri partecipanti al Sinodo.
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O «insieme» o non sarà. Insieme per chiedere ai governi il rispetto della libertà religiosa delle minoranze, insieme di fronte ai cambiamenti vorticosi del mondo moderno e alla grave crisi che essi alimentano nel mondo islamico. Una crisi rispetto alla quale la Chiesa «non può gioire» perché sarebbe «sbagliato e utilitaristico»: è ora piuttosto di tendere la mano e dire «non siete soli, siamo sulla stessa barca». È la visione e missione dell’appuntamento di ottobre nello sguardo di padre Samir Khalil Samir, islamologo di fama mondiale. Classe 1938, egiziano di nascita, membro della Compagnia di Gesù, padre Samir non usa giri di parole per ricordare quali siano le esigenze estreme della fede di fronte all’intolleranza.
Padre Samir, qual è la posta in gioco in questo evento così speciale?
Il Sinodo intende essere un momento di riflessione sul progetto dei cristiani per il futuro, perché se continuiamo così si arriverà a un punto in cui la Chiesa non avrà più la forza di contribuire a costruire la civiltà nei rispettivi Paesi: ed il rischio non è tanto che si perda la fede di quei cristiani, che continueranno comunque ad alimentare la loro identità anche all’estero, ma piuttosto la perdita per la regione del contributo insostituibile che i cristiani possono portare. Perché il dato di fatto è che una volta partiti, praticamente nessuno ritorna: anche se tutti sperano un giorno di tornare, è rarissimo che ciò accada. E di fronte a questa tendenza non basta dire: «Non partite». Come pastori della Chiesa, è ora di trovare risposte a domande più profonde che si levano dai fedeli: «Per quale motivo dovrei rimanere? Noi cristiani orientali abbiamo forse un contributo specifico da portare?». La nostra risposta è sì, abbiamo uno scopo e un ruolo insostituibile. Perché la scomparsa delle Chiese orientali costituirebbe una perdita per la Chiesa universale ma anche per l’intera società civile del Medio Oriente. Non si tratterebbe solo di quello che per Giovanni Paolo II rappresentava uno dei due polmoni della Chiesa universale: sarebbe una perdita enorme soprattutto per i musulmani, perché la presenza dei cristiani pone loro domande sull’apertura all’altro, sulla modernità, sulla libertà religiosa che potrebbero non avere più.
Come si può parlare di «missione» viste le gravi limitazioni poste alla libertà religiosa in quasi tutta la regione?
A mio avviso non possiamo accettare i limiti posti alla libertà religiosa. C’è un diritto ad annunciare il Vangelo così come a proclamare l’islam, e c’è un diritto inalienabile a cambiare religione: è una questione di principio e come tale va trattata. Bisogna lottare giuridicamente per affermare questi principi: il che richiede preparazione professionale, e il coraggio per ingaggiare una lotta con i governi. Bisogna istruire i cristiani nel campo della giustizia sociale, insegnare loro a interagire con lo Stato e con le sue istituzioni per affermare che certe leggi sono ingiuste e arrivare a cambiarle. Che cosa significa garantire la libertà religiosa? In primo luogo assicurare la presenza di luoghi di culto e la vita sacramentale della Chiesa: quindi bisogna formare il clero e i fedeli perché affrontino i governi per avere più giustizia.
E nei Paesi, come l’Arabia Saudita, nei quali è impossibile anche solo affrontare la questione?
Ebbene, potrebbe diventare necessario preparare la gente al martirio. Patriarchi e vescovi ne sono consapevoli, qualcuno l’ha anche messo per iscritto: i fedeli devono sapere che potrebbe venir loro richiesto l’estremo sacrificio. Ci sono più di un milione di cattolici in Arabia e non hanno il diritto di costruire a spese loro una capellina! Sono problemi molto seri che potrebbero comportare conseguenze estreme, ma il punto è che non possiamo tacere e dire: pazienza. Bisogna esser capaci di cominciare e ricominciare a lottare per la giustizia. Anche in Paesi nei quali il divieto è assoluto.
Lei ha scritto che «la vera tragedia del mondo islamico» sta nella chiusura all’applicazione del metodo storico-critico alle Scritture, nell’ambiguità del Corano che arriva a legittimare il suicidio per la Jihad, così come nella mancanza di separazione fra fede e politica. Dopo un decennio dominato dal dibattito sull’islam, vede dei cambiamenti?
Io vedo che all’interno del mondo islamico si leva un’onda sempre più forte, sempre più vasta di persone che dicono: «Basta! Non ne possiamo più». Pensiamo al partito egiziano Kefaya, che vuol dire appunto: Basta. Basta con la dittatura, con il fanatismo, con l’integralismo. L’abbiamo visto anche in Iran, dove la rivolta non accenna a placarsi: i cittadini vengono bastonati, arrestati, restano mesi in prigione, ma è un movimento fortissimo che non si ferma. In tanti reagiscono a questi fatti su Internet: intellettuali e gente comune riempiono i blog di reazioni. E il movimento sta aumentando finché non esploderà. La domanda è: quanto tempo ci vorrà? Mi fa pensare al crollo dell’Unione Sovietica nei decenni scorsi: nessuno pensava che si sarebbe arrivati nel giro di pochi anni agli sconvolgimenti del 1989. Ora, io non credo che crollerà così presto, perché non si tratta solo di politica ma di qualcosa di molto più profondo, molto più radicato che riguarda la sfera spirituale delle persone ed il loro modo di rapportarsi al mondo. Però è un fatto che la gente non ne può più.