Che cosa rende importante un fatto in Medio Oriente? E che spazio c'è davvero per il rispetto di una singola persona in un conflitto come quello che da troppo tempo insanguina la Terra Santa? Viene da chiederselo pensando alla storia di Berlanty Azzam, una studentessa palestinese per cui le prossime giornate si annunciano decisive. Fino a poche settimane fa Berlanty era semplicemente una ragazza di 21 anni laureanda in business administration alla Bethlehem University. Poi, la sera del 28 ottobre...
Che cosa rende importante un fatto in Medio Oriente? E che spazio c’è davvero per il rispetto di una singola persona in un conflitto come quello che da troppo tempo insanguina la Terra Santa? Viene da chiederselo pensando alla storia di Berlanty Azzam, una studentessa palestinese per cui le prossime giornate si annunciano decisive.
Fino a poche settimane fa Berlanty era una ragazza di 21 anni che si dovrebbe laureare in business administration alla Bethlehem University, l’Università dei Fratelli delle Scuole cristiane, uno dei segni lasciati in Terra Santa dal primo storico viaggio di un Papa sui Luoghi di Gesù, quello compiuto da Paolo VI nel gennaio 1964. La sua laurea era in calendario per questo mese di dicembre. Tutto fino alla sera del 28 ottobre scorso, quando – di ritorno da un colloquio per un possibile lavoro a Ramallah – Berlanty è stata fermata da una pattuglia israeliana. Il giorno dopo – a bordo di un blindato, bendata e incappucciata – si è ritrovata a Gaza, che come ormai tutti sappiamo è un posto da cui non si può uscire. Neanche per andare a Betlemme. Il problema è che Berlanty è una ragazza di Gaza. E alla Bethlehem University secondo le autorità israeliane non avrebbe dovuto esserci.
Il problema è semplice: da anni ormai Gaza è completamente isolata dal resto dei Territori palestinesi. Chi sui documenti risulta residente a Gaza non può trovarsi in Cisgiordania. Per motivi eccezionali viene concesso un permesso per recarsi a Gerusalemme; ma di un permesso di studio per andare a frequentare un’università non se ne parla. E questo nonostante nella sua storia non poi così lunga la Bethlehem University abbia avuto ben 438 laureati provenienti da Gaza. Così Berlanty ha adottato l’unico sistema possibile: nell’agosto 2005 – quando ancora a Gaza non governava Hamas – è riuscita a ottenere un permesso per recarsi alcuni giorni in Cisgiordania. E a quel punto si è iscritta comunque all’Università. Per evitare grane non ha più nemmeno tentato di andare a far visita alla sua famiglia a Gaza. È rimasta a Betlemme dove ha frequentato tutto il suo corso di studi. Fino alla beffa, scattata a poco più di un mese dalla laurea.
Ho seguito fin dai primi giorni questa vicenda attraverso il sito della Bethlehem University, che ha denunciato immediatamente la «sparizione» della sua studentessa. Ho aspettato a scriverne perché ero convinto che una soluzione di buon senso sarebbe stata trovata: mi illudevo che sarebbe spuntato un permesso risanatore, come di solito accade in casi del genere. Un permesso per rimanere a Betlemme fino alla laurea e non un giorno di più. Tra l’altro sul caso di Berlanty sono in corso pressioni internazionali, e non è affatto simpatico per Israele far sapere al mondo che tratta come una terrorista una studentessa assolutamente innocua.
Mi sbagliavo: sono già passati 36 giorni e la vicenda non si sblocca. Come al solito si è dovuti arrivare alla Corte suprema israeliana: a presentare il caso è stata Gisha, l’ennesima ong israeliana nata per occuparsi di un diritto violato dei palestinesi. Questa – di cui ignoravo del tutto l’esistenza – si è specializzata sulle questioni legate alla libertà di movimento. La Corte suprema sta esaminando la vicenda è ha dato tempo all’esercito israeliano fino a domenica 6 dicembre per presentare dei documenti: quindi nelle prossime ore si dovrebbe arrivare alla sentenza. Ma il fatto stesso che un caso del genere approdi alla Corte suprema è una sconfitta: è la testimonianza di come una persona, con i suoi progetti, le sue aspettative rispetto alla vita, possa finire alla mercé di una questione di principio. Perché le autorità israeliane non vogliono trovare una soluzione nemmeno provvisoria alla vicenda semplicemente per non creare un precedente che in qualche modo rompa l’assedio di Gaza. E – in tutto questo – non conta nulla il fatto che da tutte le indagini compiute non risulti il minimo legame tra la famiglia Azzam e il terrorismo.
La verità è che la vicenda di Berlanty Azzam racconta la quotidianità del dramma di Gaza: quello che non vogliamo vedere, perché sappiamo bene che non ha per protagonisti dei fanatici islamisti ma della gente esattamente come noi. Per chi vuole conoscere un po’ meglio questa Gaza consiglio il blog Conversando con Gerusalemme di Andres Bergamini, del patriarcato latino, che di tanto in tanto si reca in visita alla parrocchia di Gaza. Senza retorica inutile, offre uno sguardo sulla quotidianità di questo angolo ferito del mondo. Il modo migliore per ricordare – a quasi un anno ormai di distanza – una guerra tanto sanguinosa quanto inutile.
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