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Finestre per comunicare

Giorgio Bernardelli
30 novembre 2009
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Finestre per comunicare
Ragazze palestinesi alla finestra.

Vivono a contatto, nella stessa terra ma non si conoscono. Sono i ragazzi ebrei e palestinesi d'Israele e dei Territori. Una rivista realizzata in arabo ed ebraico cerca di farli incontrare...


Entri nella sede, in uno scantinato di Lilienblum Street a Tel Aviv, e dai mucchi di riviste accatastate riconosci subito la sana confusione che regna in ogni redazione. Eppure Windows-Channels for communication è qualcosa di più di un semplice giornale. Perché a scriverlo in due lingue – in ebraico e in arabo – è un gruppo di adolescenti che stanno sia in Israele sia nei Territori palestinesi. Ma anche perché è una rivista che in stampa ci va solo quando può. Eppure il lavoro prezioso delle sue squadre di giornalisti non si ferma mai. Perché ha un obiettivo più importante rispetto a una manciata di fogli di carta patinata: la sfida vera è infatti quella di provare ad aprire delle «finestre» vere nei muri di incomprensione dentro cui crescono i ragazzi del conflitto israelo-palestinese. Per questo vale assolutamente la pena di lasciarsi raccontare dall’inizio questa storia proprio dalla voce di chi – tra mille difficoltà – l’accompagna ormai da quasi vent’anni.

Rutie Atzmon, come è nata l’idea di Windows?
Tutto è iniziato nel 1990. Insieme a una mia amica, Nina, abbiamo letto che in Sudafrica c’era una rivista per ragazzi in tre lingue, Moloshongololo, che aiutava la comprensione reciproca. Ci siamo dette: perché non fare la stessa cosa, con i nostri ragazzi? Per realizzare questo sogno, però, c’è voluto un po’ di tempo. Nessuno voleva finanziarci, ci dicevano che eravamo pazzi. Solo con l’avvio del processo di pace l’idea ha iniziato a viaggiare. Nel 1994 abbiamo cominciato a lavorare sul serio con i ragazzi e nel 1995 è stato pubblicato il primo numero di Windows. Poi sono venute le attività con i ragazzi in un campo profughi della Cisgiordania. Ancora durante l’intifada avevamo i due gruppi di ragazzi a Tel Aviv e a Tulkarem che potevano incontrarsi. E quando è diventato impossibile, abbiamo cominciato a farli incontrare in Italia: a Gradara, nelle Marche, o presso altri amici in Toscana.

Come avviene il lavoro con i ragazzi?
Focalizziamo l’attenzione sulla scrittura. Perché scrivendo questi ragazzi imparano a conoscere se stessi, gli altri e il conflitto, cominciano a cambiare i propri sentimenti e le proprie paure. Attualmente stiamo lavorando con due diverse squadre editoriali:  la prima vede insieme ragazzi di Giaffa, Tel Aviv e Betlemme; l’altra ragazzi di Jenin, della Galilea e ancora di Tel Aviv. Una squadra è formata da ragazzi di tredici e quattordici anni; l’altra da ragazzi di quindici e sedici. Teniamo sempre insieme israeliani di matrice ebraica, arabi israeliani e palestinesi. Ogni gruppo locale è molto piccolo, tra cinque e sette ragazzi; in tutto – dunque  – in ogni squadra non ci sono mai più di una quindicina di ragazzi. Lavorano insieme per due o tre anni. Di persona si incontrano poche volte, ma tra un incontro e l’altro comunque si scrivono. E così iniziano davvero a parlarsi in profondità. Perché quando ci si incontra spesso non si dice tutto o non ci si ascolta realmente. Se scrivi però è diverso. E il compito di noi facilitatori, che seguiamo passo passo tutto questo processo, è proprio aiutarli. Chiediamo loro: Che cosa provi? Che cosa vorresti dire? Che cosa ti ha insegnato questa esperienza? Così si impara a conoscersi e rispettarsi l’un l’altro.

Come scegliete i ragazzi?
A volte attraverso le scuole: andiamo nelle classi a presentare il progetto. Altre volte sono proprio alcuni ragazzi a farsi avanti: magari hanno sentito parlare di noi da qualche amico. Finora abbiamo pubblicato 29 numeri; nel 2008 avevamo ottenuto un finanziamento dell’Unione Europea e così ne abbiamo potuto realizzare ben otto. Adesso, però, questo programma è finito e così siamo alla ricerca di un altro finanziatore, impresa non facile in questo periodo di crisi.

Come si superano nell’attività con i ragazzi i momenti in cui il conflitto emerge con il suo volto più duro?
Le racconto un episodio. Nel 2002 avevamo il gruppo di Tulkarem e quello di Tel Aviv che si scrivevano. Eravamo nel periodo più duro dell’intifada e una delle ragazze palestinesi ha scritto nella sua lettera che avrebbe voluto uccidere tutti gli ebrei. Siamo rimasti ovviamente tutti scioccati. I ragazzi di Tel Aviv erano furiosi: «Perché partecipa a Windows se poi scrive queste cose?». Ho detto loro: «Va bene, avete sfogato la vostra rabbia e la comprendo. Proviamo però a chiederci perché questa ragazza ha scritto questa frase». A poco a poco a poco hanno cominciato a capire dove viveva questa ragazza, il problema dell’isolamento, il fatto che magari l’esercito israeliano stava con le armi puntate accanto a casa sua. E allora i ragazzi di Tel Aviv le hanno risposto provando a raccontare loro stessi, le loro ferite. Quando è arrivata una nuova lettera da Tulkarem eravamo tutti in ansia, perché non sapevamo quale sarebbe stata la sua reazione. E allora lei ha raccontato che aveva scritto quella frase perché dalla sua finestra aveva visto i soldati israeliani uccidere. Ma adesso lei capiva che dall’altra parte non tutti la pensavano così. E allora si correggeva: adesso voleva uccidere solo i soldati israeliani… Se non altro è un inizio. È di lettera in lettera che l’odio si può superare.

Dove viene diffusa la rivista?
In una settantina di scuole israeliane e palestinesi. A volte viene distribuita durante un incontro con uno di noi facilitatori: questo permette di riflettere insieme ai ragazzi su quanto trovano scritto. Si discute molto ed è utile per tutti.

Quanti sono i facilitatori?
Ogni gruppo locale ne ha uno. Quindi quando la squadra si ritrova insieme ce ne sono almeno tre, più i traduttori. Per questo ruolo cerchiamo sempre una persona della stessa zona da cui provengono i ragazzi, perché deve crearsi un clima di grande fiducia.

Quali altre attività ha proposto in questi anni Windows accanto alla rivista?
Una a cui teniamo molto è l’arte dei bambini. È uno dei modi attraverso cui coinvolgiamo le scuole. Chiediamo ai ragazzi di esprimere i propri sentimenti rispetto al conflitto: alcuni disegnano la guerra, altri disegnano la pace, altri i propri sogni. Abbiamo esposto questi disegni in tante realtà diverse, così la gente può vedere, immedesimarsi nello stato d’animo di questi bambini che magari stanno dall’altra parte della barricata. In questo senso anche attraverso i disegni si apre una finestra. Altre attività sono i corsi di arabo per ebrei israeliani e i cicli di film, legati al conflitto.

I ragazzi che incontrate man mano crescono. Che cosa succede dopo?
Non è facile continuare un percorso. Noi puntiamo a creare un’amicizia tra giovani leader. Ma soprattutto quello che ci piacerebbe di più è che rimanesse la presa di coscienza iniziata con Windows, che diventassero attivisti impegnati in attività sociali e di sensibilizzazione, in Israele come nei Territori. Ci sono comunque anche quelli che tornano qui da noi per continuare a lavorare come volontari, impegnarsi nell’associazione, o diventare loro stessi facilitatori per nuovi gruppi di ragazzi.

Come avviene oggi l’attività di Windows nei Territori?
Insieme a me c’è un co-direttore palestinese che sta a Ramallah. Abbiamo avuto per alcuni anni anche una sede a Tulkarem. Poi però è stata bruciata, qualcuno gli ha sparato contro anche dei colpi d’arma da fuoco. È stato un momento molto difficile. Tanti palestinesi appoggiano le nostre attività, ma altri no. E così a Tulkarem stava diventando pericoloso. I nostri amici sul posto volevano continuare, ma non ce la siamo sentita di assumerci la responsabilità, specialmente per un’attività che coinvolge i ragazzi. Così adesso si incontrano in scuole o in sedi di altre organizzazioni. Stiamo cercando un posto per riaprire una sede a Ramallah, ma è indispensabile avere l’appoggio della comunità circostante».

Un’esperienza come quella di Windows non può non risentire del clima che la circonda…
Dietro al voto di Israele per la destra c’è la sfiducia nei palestinesi, soprattutto dopo la presa del potere di Hamas. Ma un discorso analogo si potrebbe fare anche per quello che succede a Ramallah. È una situazione molto complessa. Perché nello stesso tempo, molta di questa stessa gente, vorrebbe i due Stati. È vero, a volte la gente è talmente stanca di questo conflitto che sceglie la violenza. Ma può farlo solo perché chiude gli occhi sulla gente che sta dall’altra parte. Non vede la possibilità di parlare, di ascoltarsi, di discutere davvero. Noi abbiamo il compito di ricordare che è possibile. È una parte rilevante del problema: convincere la gente che abbiamo qualcosa da guadagnarci se impariamo a comprenderci l’un l’altro. Se l’adolescente israeliano capisce che cosa significa vivere sotto l’occupazione e il diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato, cambia tutto. E se l’adolescente palestinese capisce che Israele non è un incidente della storia o un frutto del colonialismo europeo, ma c’è un legame storico forte con questa terra, diventa più facile accettare l’idea che si debba arrivare a un compromesso. Solo così possono capire che devono lavorare insieme per creare questo cambiamento.

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