Il primo passo, dopo quasi un secolo di ostilità, c’è stato. Eppure ci vorrà tempo, ancora, per far scoppiare davvero la pace tra Turchia e Armenia, Paesi divisi da un genocidio – tra il 1915 e il 1917, ai tempi dell’Impero Ottomano – e, più recentemente, dalla questione della provincia in prevalenza cristiana del Nagorno-Karabakh. Lo scorso 10 ottobre, a Zurigo, i ministri degli Esteri turco Ahmet Davutoglu e armeno Edward Nalbandian, alla presenza, tra gli altri, del segretario di Stato Usa Hillary Clinton, hanno firmato uno storico accordo sulla normalizzazione delle relazioni bilaterali, riallacciando così un dialogo ufficialmente interrotto da tempo. L’intesa si compone di due protocolli: il primo riguarda, appunto, la ripresa delle relazioni diplomatiche, mentre il secondo concerne il successivo sviluppo dei rapporti, con annessa un’appendice che stabilisce una sorta di tabella di marcia per l’attuazione di entrambi i documenti.
Tra i nodi principali c’è la riapertura delle frontiere tra i due Paesi (chiuse dal 1993) entro due mesi dall’entrata in vigore del secondo protocollo, ma, prima di tutto, occorre che l’intesa siglata a Zurigo venga approvata dai rispettivi parlamenti e presidenti. Ed è proprio questo il punto che più preoccupa gli analisti. Il premier turco Tayyp Erdogan, ad esempio, nonostante possa contare su un’ampia maggioranza parlamentare, dovrà infatti fare i conti con un’opposizione tutt’altro che disposta a far concessioni all’Armenia, a meno di importanti progressi sulla questione del Nagorno-Karabakh e della rinuncia, da parte del governo di Erevan, alla pretesa di veder riconosciuti come genocidio i massacri degli armeni avvenuti ai tempi dell’Impero Ottomano.
In Armenia, poi, la firma degli accordi di Zurigo è stata accolta con manifestazioni di protesta da parte di migliaia di persone: le intese, secondo gli oppositori, minacciano gli interessi del Paese e potrebbero avere «conseguenze imprevedibili». Contraria è soprattutto la grande diaspora armena, nata dal problema di fondo che ha avvelenato quasi 100 anni di storia: il genocidio di 1,5 milioni di persone (mentre per Ankara si trattò di 300-500 mila morti provocati dalla guerra civile).
I figli e i nipoti delle vittime di quelle stragi si oppongono, insomma, a qualsiasi accordo con i figli e i nipoti dei persecutori, almeno finché non ci sarà un riconoscimento di quei tragici fatti, riconoscimento del quale la Turchia non vuol nemmeno sentire parlare.
Senza contare, poi la questione del Nagorno-Karabakh. Nel 1993 Ankara interruppe i rapporti con Erevan e chiuse la frontiera con la cristiana Armenia in segno di solidarietà con l’islamico e turcofono Azerbaigian, allora in lotta con i separatisti armeni del Nagorno-Karabakh. La provincia è attualmente sotto il controllo militare armeno, ma la Turchia chiede a Erevan il ritiro delle truppe come gesto di normalizzazione, oltre che come segnale positivo verso l’Azerbaigian, che duramente ha protestato contro gli accordi turco-armeni siglati a Zurigo.