Mahmoud Abbas lascia. Ma che cosa succederà ora nella politica palestinese? Dopo l'annuncio del presidente di non voler correre per la rielezione nelle elezioni annunciate per il 24 gennaio, le analisi sui quotidiani del Medio Oriente sono contrassegnate da una grande incertezza. Una cosa è certa: c'è il rischio che finisca definitivamente l'era iniziata con Oslo. Quale sia il motivo che ha spinto il presidente palestinese, più noto come Abu Mazen, a ufficializzare la sua scelta appare molto chiaro: la retromarcia di Hillary Clinton sulla questione degli insediamenti israeliani è la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Mahmoud Abbas lascia. Ma che cosa succederà ora nella politica palestinese? Dopo l’annuncio del presidente di non voler correre per la rielezione nelle elezioni annunciate per il 24 gennaio, le analisi sui quotidiani del Medio Oriente sono contrassegnate da una grande incertezza. Una cosa è certa: c’è il rischio che finisca definitivamente l’era iniziata con Oslo.
Intanto quale sia il motivo che ha spinto il presidente palestinese, più noto come Abu Mazen, a ufficializzare la sua scelta appare molto chiaro leggendo dall’agenzia palestinese Maan il testo completo delle sue dichiarazioni. È stata la retromarcia di Hillary Clinton sulla questione degli insediamenti la goccia che ha fatto traboccare il vaso. L’aver posto realmente in primo piano la questione degli insediamenti era stata la vera novità della politica americana in Medio Oriente. Ma è fatalmente diventata anche la cartina di tornasole per vedere quanto l’amministrazione Obama faccia sul serio. E l’impressione di queste ultime settimane è quella di una vistosa frenata, soprattutto sul tema dei nuovi quartieri israeliani di Gerusalemme Est. Come racconta molto bene l’ultimo rapporto di Ir Amim – una delle ong israeliane che seguono con più attenzione le questioni urbanistiche a Gerusalemme – non passa praticamente giorno senza che il problema venga fuori. L’ultimo casus belli è l’ipotesi della costruzione del nuovo sobborgo di Givat Yael, un nuovo quartiere da 14 mila abitazioni (più o meno 40 mila persone) che costituirebbe l’anello di congiunzione con il Gush Etzion, uno dei più popolosi gruppi di insediamenti in Cisgiordania. Un nuovo quartiere che verrebbe costruito su un’area che il piano regolatore di Gerusalemme designava a verde pubblico. E proprio per questa motivazione finora su quella stessa area erano stati negati i permessi di costruzione per l’espansione del vicino villaggio di arabo di Wallaja…
La questione degli insediamenti non è un pretesto, ma un nodo fondamentale. E il negoziato «senza precondizioni» sarà anche una bella formula retorica, ma è senza senso nel negoziato israelo-palestinese. La Road Map si fondava su due precondizioni: il rifiuto palestinese della violenza e lo smantellamento degli outpost, gli insediamenti ritenuti illegali dalla stessa legislazione israeliana. Il boicottaggio di Hamas si fonda su altre tre precondizioni che gli islamisti non accettano: il riconoscimento di Israele, il rifiuto della violenza, il rispetto degli accordi firmati dall’Anp. Abu Mazen – che si trovava a dover trattare con un governo israeliano che ha al suo interno forze che sono l’espressione politica dei coloni israeliani e che si stanno dando da fare per promuovere la loro politica – aveva assolutamente bisogno di questa precondizione. E constatando di non averla ottenuta ha compiuto l’unica mossa a sua disposizione: ha fatto saltare il tavolo.
Che cosa succederà adesso? Sui giornali cominciano a circolare i nomi per la successione: si parla di Mohammed Dalan (l’arci-nemico di Hamas), del premier Salaam Fayyad (abile tecnocrate, ma decisamente poco popolare), del solito Marwan Barghouti (se si candidasse sarebbe certamente eletto, ma sarebbe un «presidente simbolo», detenuto in un carcere israeliano). La verità è che, se il passo di Abu Mazen sarà confermato (le pressioni interne ed esterne perché ci ripensi sono molto forti), quella che si aprirà per la politica palestinese sarà una fase molto travagliata. Lo spiega molto bene – nell’intervista a bitterlemons.org che rilanciamo qui sotto – Said Zeitani, politologo dell’Università di Bir Zeit. In gioco non c’è semplicemente l’emergere di una figura: a essere messa in discussione sarebbe l’intera linea seguita da Abu Mazen, che è poi quella iniziata nel 1993 con gli Accordi di Oslo. Dovrebbe far riflettere il fatto che oggi persino Saeb Erekat, un protagonista di quindici anni di negoziati, dichiari che l’idea dei due Stati è finita.
Se questa è la situazione in campo palestinese, non è che da parte israeliana ci sia da stare allegri. Perché se davvero Abu Mazen esce di scena anche Netanyahu finisce in un vicolo cieco. A quel punto, infatti, risulterà ancora più chiara nel suo esecutivo l’assenza di un’idea su come gestire il conflitto. Senza un Abu Mazen a cui stringere la mano di tanto in tanto Netanyahu si troverà a dover fare una proposta. Ma non sarà facile trovarne una che metta d’accordo lui, Barak, Lieberman e i partiti religiosi. E allora non è probabilmente un caso che – dietro l’angolo – ci sia un personaggio che sta scaldando i muscoli. Come scriveva Haaretz qualche giorno fa, Shaul Mofaz – l’ex ministro della Difesa, sconfitto solo per un soffio da Tzipi Livni nelle primarie di Kadima – sta preparando un ritorno in grande stile. A giorni dovrebbe lanciare la proposta di un disimpegno unilaterale da una buona fetta della Cisgiordania. Perché i due Stati alla fine sono nell’interesse di Israele molto più che dei palestinesi. Ma se Israele li costruisce unilateralmente può dettare le sue condizioni. Con questa mossa Mofaz vuole proporsi come il vero erede di Sharon. E probabilmente lo è sul serio. Ma la sua è una mossa molto rischiosa, perché i danni creati dall’unilateralismo sono sotto gli occhi di tutti.
È in grande movimento la situazione in Medio Oriente. A stare invece graniticamente ferma è solo la nostra diplomazia. Non abbiamo ancora capito che la pace tra israeliani e palestinesi non arriverà mai per forza d’inerzia. Se non c’è un’iniziativa forte temo che molto presto ci troveremo a pagarne le conseguenze.
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