Mahnal tiene in braccio la piccola Giovanna di pochi mesi mentre i due gemellini si tengono alla gonna: vivono in una grande casa sulla linea del Muro di sicurezza che separa Betlemme da Beit Jala, ma in realtà è una sorta di prigione. Questa posizione ha causato e causa gravi problemi a tutta la famiglia. «A parte la difficoltà a raggiungere Betlemme dove lavoriamo e dove si trova la nostra parrocchia, non abbiamo potuto costruire il tetto della casa perché avrebbe superato l’altezza del Muro e questo non è consentito, ma soprattutto abbiamo perso la terra e gli ulivi che si trovano al di là… così vediamo gli israeliani che raccolgono le nostre olive mentre noi siamo costretti a comprare l’olio!»
Ma quello che angoscia Mahnal è ben altro, è l’odio che si respira intorno e dentro la sua casa e che minaccia la crescita serena dei suoi bambini: «Durante l’intifada era assordante il suono degli elicotteri e dei bombardamenti vicini, da noi entravano ed entrano ancora oggi i soldati di giorno e di notte per fare controlli, spesso rovinando il cancello e la porta… Se poi sorprendono qualcuno che ha cercato di oltrepassare il Muro, lo torturano e lo lasciano lì sanguinante perché sia di monito ad altri… I nostri bambini vedono tutto questo e dobbiamo farli seguire dagli psicologi affinché ritrovino un equilibrio. Ma come possiamo educarli al dialogo? Temo fortemente per il loro futuro». Nonostante tutto, Manhal non pensa di emigrare, ha molta fiducia nell’aiuto della comunità cristiana a cui si aggrappa: «Siamo pochi cristiani e sappiamo di essere una presenza scomoda tra due popoli che si fanno la guerra, ma ci sentiamo uniti; per noi la terra è sacra, come l’ospite e l’onore. Dio ci ha chiesto di essere suoi discepoli qui, dove tremenda è la divisione, ma sono certa che non resterà sordo al nostro grido».