Fino all’ultimo momento sembrava che non s’avesse da fare. E invece il buon senso ha avuto la meglio. Parliamo dell’accordo, siglato il 10 ottobre scorso tra Turchia ed Armenia a Zurigo (Svizzera), che prevede, insieme al ristabilimento delle relazioni diplomatiche, anche l’apertura di frontiere e canali commerciali.
Ovviamente, stante il lungo periodo di contrapposizione e d’inimicizia tra Turchia e Armenia, è ancora troppo presto per capire se saranno tutte rose e fiori. L’accordo è un passo indubbiamente coraggioso, ma la firma dovrà essere ratificata dai parlamenti nazionali: passaggio non del tutto scontato e che sta facendo salire la tensione politica nei due Paesi. Il riconoscimento del genocidio armeno è il cuore della questione. La Turchia non accetta che si utilizzi il termine «genocidio» e ha sempre negato le tesi (e le cifre) di parte armena. A peggiorare i rapporti tra i due governi, il conflitto del Nagorno Karabakh, durante il quale Ankara aveva sostenuto le posizioni dell’Azerbaigian contro l’Armenia.
Nonostante le difficoltà anche recenti, è innegabile che l’accordo segni una svolta nelle relazioni tra Armenia e Turchia e sottolinei il desiderio (propiziato anche da esigenze economiche e dall’intenso lavoro della diplomazia internazionale) di guardare con occhi diversi al futuro.
Ma non basta la firma su un pezzo di carta per fugare problemi e odi radicati. Sapranno i governi far accettare alle fazioni più oltranziste dei rispettivi Paesi la necessità di voltare pagina? Sapranno Turchia e Armenia lavorare insieme per arrivare a sciogliere i nodi storici che le separano? Questa è la vera partita da giocare.
Da parte sua la comunità internazionale dovrà avere cura di aiutare i due Paesi a intraprendere un serio cammino di guarigione della memoria, unica vera garanzia di pace e stabilità.