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Vertice trilaterale a New York. Almeno si parlano

23/09/2009  |  Milano
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Vertice trilaterale a New York. Almeno si parlano
New York, 22 settembre 2009. Il premier israeliano Benjamin Netanyhau (a sin.) stringe la mano di Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità palestinese, sotto lo sguardo del presidente Usa, Barack Obama (foto White House/S. Appleton)

Cosa resta del vertice trilaterale promosso ieri, 22 settembre 2009, a New York dal presidente statunitense Barack Obama con il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen)? C'è un appello, quello di Obama, a rilanciare «subito» i negoziati di pace. C'è un Netanyahu che incassa l'alleggerimento della pressione americana sulla questione degli insediamenti in Cisgiordania. E un Abu Mazen che, viceversa, proprio su questo punto si è attirato critiche feroci dal campo palestinese.


La stretta di mano c’è stata, la foto da mandare in archivio anche. Eppure c’è poco altro nei commenti del giorno dopo sul vertice trilaterale promosso ieri, 22 settembre 2009, a New York dal presidente statunitense Barack Obama con il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). C’è un appello, quello di Obama, a rilanciare «subito» i negoziati di pace. C’è un Netanyahu che incassa l’alleggerimento della pressione americana sulla questione degli insediamenti in Cisgiordania. E un Abu Mazen che, viceversa, proprio su questo punto si è attirato critiche feroci dal campo palestinese, non ultime le accuse di Hamas, pronta a sfruttare la presunta «resa» del capo dell’Anp sul fronte delle colonie israeliane per sottolineare che Abu Mazen «non può pretendere di rappresentare i palestinesi, ma solo al-Fatah».

La stampa israeliana, che già alla vigilia aveva parlato di un summit «inutile», parla ora di vertice «gelido» (così Yedioth Ahronoth) o comunque solo interlocutorio, e di un Obama al quale «è facile dire no» (Jerusalem Post). Anche se c’è chi, come Haaretz, preferisce sottolineare almeno un aspetto del messaggio lanciato dal presidente americano con questo vertice. E cioè che «ci sono dei limiti all’intransigenza» sia degli israeliani che dei palestinesi, che Washington non ha più pazienza per «le infinite reciproche recriminazioni e gli storici pesanti fardelli» di entrambe le parti.

Se ha una valenza allora, questo vertice spernacchiato anche da una colomba della sinistra israeliana come Yossi Beilin («patetico» lo ha definito), può essere allora forse individuato in quel senso di urgenza che Obama ha cercato di trasmettere a Netanyahu e Abu Mazen. Un «ammonimento», lo ha chiamato Maariv, sul fatto che il processo di pace andrà avanti «con o senza di loro». Altri analisti, pur non nascondendo il risultato scialbo del vertice, sostengono che la sua importanza non risiedesse tanto in eventuali annunci clamorosi o in svolte immediate, quanto proprio nel suo stesso svolgimento. E ricordano come Abu Mazen avesse «perso interesse» nei negoziati circa un anno fa, con le dimissioni dell’allora premier israeliano Ehud Olmert e la successiva ascesa al potere di Netanyahu, che il capo dell’Anp non aveva mai voluto incontrare.

Proprio Abu Mazen, peraltro, ha affermato che la sua posizione «prima e dopo questo vertice resta la stessa». E quindi il blocco degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e il ritiro lungo le frontiere del 1967. Ma sul fronte degli insediamenti è Netanyahu a poter cantare vittoria, con Obama che parla ora di «contenimento» e non più di «congelamento», e la questione, evidentemente, non è di stampo puramente semantico.

Per George Mitchell, inviato Usa per il Medio Oriente che nei prossimi giorni inizierà una nuova serie di incontri con le delegazioni delle due parti, la questione degli insediamenti è un elemento «non essenziale» per la ripresa delle trattative di pace. E, anzi, «non c’è alcun elemento che debba essere considerato come una precondizione ai negoziati». Mitchell, come Obama, parla di una «finestra di opportunità», di «un’atmosfera diversa» che si basa anche sul fatto che «entrambe le parti condividono l’obiettivo della soluzione dei due Stati e di un accordo di pace comprensivo».

Ceto manca il come, il dove e il quando. Gli Stati Uniti, almeno pubblicamente, hanno almeno per ora evitato di indicare la soluzione ai rebus che restano irrisolti, ritagliandosi invece il ruolo del consigliere che aiuta i contendenti a raggiungere i loro obiettivi. Nessuna formula precostituita, nessuna precondizione. Quello che Washington oggi vuole, «pretende», è che Netanyahu e Abu Mazen rilancino un negoziato. Che si parlino, insomma, mettendo da parte una volta per tutte ostilità e diffidenza reciproche. Ci vorrà ancora tempo, però, per capire se ciò sarà sufficiente per arrivare alla pace.

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