Non c'è analisi sul Medio Oriente che non indugi sulla questione del petrolio. Ma c'è un aspetto che sta passando abbastanza inosservato: il dilagare anche in Israele della febbre dell'«oro nero». Che - come tutto quello che succede a Gerusalemme - si riveste anche di significati decisamente inaspettati. Partiamo da una notizia che riferita ieri da Arutz Sheva, l'agenzia vicina al mondo dei coloni: a ottobre nella zona del Mar Morto inizierà una serie di indagini per stabilire se nella zona vi sono giacimenti di petrolio e gas naturale. Non si tratta di un'indagine peregrina...
Non c’è analisi sul Medio Oriente che non indugi sulla questione del petrolio. Ma c’è un aspetto che sta passando abbastanza inosservato: il dilagare anche in Israele della febbre dell’«oro nero». Che – come tutto quello che succede a Gerusalemme – si riveste anche di significati decisamente inaspettati.
Partiamo da una notizia che riferita ieri da Arutz Sheva, l’agenzia vicina al mondo dei coloni: a ottobre nella zona del Mar Morto inizierà una serie di indagini per stabilire se nella zona vi sono giacimenti di petrolio e gas naturale. Non si tratta di un’indagine peregrina: la società che la conduce – il Delek Group – è la stessa che a 50 miglia al largo di Haifa qualche mese fa ha trovato un gigantesco giacimento di gas naturale, battezzato Tamar. Ci sono geologi che sostengono che – per le sue caratteristiche – la zona del Mar Morto potrebbe essere ricca di idrocarburi. L’amministratore delegato del Delek Group Yitzchak Tshuva – secondo quanto scrive Arutz Sheva -si è già spinto molto avanti, sostenendo che in un futuro non troppo lontano Israele potrebbe raggiungere l’autosufficienza energetica e diventare addirittura un Paese esportatore di gas naturale. Quello che invece l’agenzia dei coloni non dice è che – ovviamente – un’eventuale scoperta di giacimenti di petrolio peserebbe ulteriormente sul conflitto israelo-palestinese, perché la parte preponderante della costa ovest del Mar Morto ricade nella Cisgiordania e non nel territorio internazionalmente riconosciuto di Israele. A che titolo avverrebbe questo sfruttamento del sottosuolo? Del resto sono già da tempo oggetto del contendere i giacimenti di gas naturale al largo di Gaza, come raccontavamo in questa rubrica già due anni fa (consulta l’archivio). Per non parlare poi delle possibili conseguenze dell’attività estrattiva su un ecosistema delicatissimo come quello del Mar Morto.
Perché, però – tra tutti i media israeliani – proprio Arutz Sheva si esalta per la corsa al petrolio sionista? Per capirlo basta dare un’occhiata a oilinisrael.net, il sito di un’altra di queste società interessatissime al sottosuolo dell’Eretz Yizrael. La Zion Oil & Gas è, infatti, una società registrata nel Delaware che ha acquisito i diritti di estrazione su una vasta area tra Haifa e Netanya. Una società di tutto rispetto: da qualche giorno è quotata al Nasdaq, evento celebrato dai suoi vertici a Wall Street con il classico suono della campanella che apre le contrattazioni. Bene: l’aspetto più interessante è che scorrendo il sito oilinisrael.net si capisce da dove la Zion Oil & Gas tragga la sua certezza di trovare giacimenti importanti sotto la superficie della Terra di Israele. In grande evidenza campeggia infatti la pubblicità di un libro intitolato Breaking the Treasure Code. The Hunt for Israel Oil, in cui si attribuisce niente meno che a una profezia biblica il futuro radioso dell’industria petrolifera israeliana. Il riferimento sembrerebbe alla benedizione di Giacobbe, citata nel libro della Genesi. Secondo questi lettori della Torah, l’ebraico shemen – di cui sarebbe ricca la Terra di Israele – non indicherebbe l’olio di oliva, ma un altro genere di olio… Al di là delle dispute tra esegeti, è un dato di fatto che le newsletter della Zion Oil & Gas si chiudano con citazioni dal profeta Isaia. Dopo il petrolio dei wahhabiti avremo, dunque, anche gli idrocarburi della destra religiosa sionista?
Solo il futuro ci potrà dire se è un abbaglio o se davvero è una novità dietro l’angolo nel mercato globale dell’energia. Che – comunque – è destinato a pesare ancora molto sui giochi del Medio Oriente. È quanto sostiene sul quotidiano libanese The Daily Star Shlomo Ben-Ami, già diplomatico e ministro degli Esteri israeliano nell’ultimo governo a guida laburista. Ben-Ami invita a non farsi illusioni sul declino dei petrodollari. E aggiunge che – se un domani davvero l’Arabia Saudita finisse nelle mani dei jihadisti – il pericolo vero non sarebbe lo stop delle forniture di petrolio all’Occidente, ma la loro molto più probabile prosecuzione: «Miliardi di petrodollari diventerebbero il potere di fuoco finanziario dietro ai disegni globali wahhabiti. Sempre ammesso che questo sia qualcosa di diverso rispetto alla situazione attuale». Si possono fare tutti i discorsi politici che si vogliono sul Medio Oriente, ma – scrive ancora Ben-Ami – «anche se gli Stati Uniti riducessero fino al 17 per cento i propri consumi di petrolio (come vorrebbe Obama – ndr) continuerebbero a dipendere dal petrolio del Golfo, e dunque dalla sicurezza energetica del Medio Oriente». Chissà, forse qualcuno a Washington la benedizione di Giacobbe la sta studiando sul serio…
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