Il cinema documentaristico israeliano sale in cattedra a Milano. Il Milano Film Festival 2009, che si sta svolgendo nel capoluogo lombardo in questi giorni (dall'11 al 20 settembre), dedica una sezione speciale ad Avi Mograbi, regista e documentarista israeliano, presentando gran parte della sua produzione. Mograbi, 53 anni, è un «figlio d'arte»: la sua famiglia era proprietaria del Cinema Mograbi di Tel Aviv, aperto da suo nonno negli anni Trenta. Come regista Avi Mograbi ha unito alla passione per il cinema un forte impegno civile, scegliendo di dedicarsi in particolare alla produzione di documentari. Lo abbiamo intervistato.
Il cinema documentaristico israeliano sale in cattedra a Milano. Il Milano Film Festival 2009, che si sta svolgendo nel capoluogo lombardo in questi giorni (dall’11 al 20 settembre), dedica una sezione speciale ad Avi Mograbi, regista e documentarista israeliano, presentando gran parte della sua produzione. Mograbi, 53 anni, è un «figlio d’arte»: la sua famiglia era proprietaria del Cinema Mograbi di Tel Aviv. Aperto da suo nonno negli anni Trenta, fu la prima sala cinematografica con sonoro di tutto il Medio Oriente.
Come regista, Mograbi ha unito alla passione per il cinema un forte impegno civile, maturato negli anni dell’università. Anche per questo ha scelto di dedicarsi in particolare alla produzione di documentari, nel tentativo di rappresentare la società israeliana moderna nel modo più efficace possibile. In questa intervista a Terrasanta.net, racconta le difficoltà e gli incontri che hanno animato il suo lavoro.
È possibile raccontare la realtà del conflitto arabo-israeliano?
All’inizio della mia carriera pensavo di sì. Ero convinto che raccontando in modo scientifico i fatti si potesse ricostruire la realtà. Poi, col tempo, ho cambiato idea. Mi sono reso conto che forse, più un film cerca di essere un documentario asettico, più il regista manipola il pubblico, perché fa una scelta personale selezionando i fatti da presentare. Così i miei documentari sono diventati più simili a fiction: raccontare una storia «falsa», anche ironica e grottesca, può servire a spiegare la vera realtà israeliana.
Come nasce un suo film?
Ogni film nasce in modo diverso. L’ideazione di un film parte sempre da uno spunto preciso, poi però non è detto che l’idea iniziale sia confermata alla fine del film. Ad esempio in Per uno solo dei miei occhi, un film del 2005, volevo partire con una provocazione che potesse far riflettere: presentare cioè Sansone, l’eroe biblico, come il primo terrorista kamikaze della storia. Con un suo video-testamento, simile a quelli che fanno i terroristi arabi prima di farsi esplodere. Poi ho cambiato idea, e ho fatto a meno di questo spunto. Oppure, in Come ho imparato a vincere la mia paura e ad amare Arik Sharon, un documentario del 1997, il film partiva dalla mia convinzione che Ariel (Arik) Sharon fosse il colpevole della situazione in cui ci troviamo, per quanto riguarda gli insediamenti dei coloni nei Territori Occupati. Da quando nel 1977 è diventato ministro per la prima volta, infatti, Sharon ha iniziato a sostenere gli insediamenti e da allora ha sempre continuato. Questo, a mio avviso, è stato addirittura più dannoso di alcune azioni belliche. Volevo girare un film per raccontare tutta la verità su Sharon, ma durante le riprese l’obiettivo del documentario è cambiato: è diventato un lavoro che pone di più l’accento sul grottesco della figura di Sharon che sul reale.
Produrre un documentario in Israele è un’impresa complicata?
Israele, per i suoi cittadini, più per gli ebrei che per gli arabi, è un meraviglioso Stato democratico che offre i mezzi per fare molte cose. Negli ultimi dieci anni lo Stato ha messo a disposizione una grande quantità di denaro pubblico ed è stato possibile realizzare moltissime produzioni. Dal punto di vista cinematografico siamo giovani, non è come in Italia. I finanziamenti pubblici sono molto importanti. i finanziamenti privati e le sponsorizzazioni, che non mi mancano in realtà, non sarebbero comunque sufficienti.
Come nasce la sua collaborazione con Breaking the silence, l’associazione di ex-soldati israeliani che denunciano le atrocità del conflitto?
Nel 2004, alcuni di questi ex-militari hanno deciso di realizzare una mostra per spiegare il proprio punto di vista. Così sono stato coinvolto per realizzare una video-testimonianza. La cosa mi è piaciuta molto. Si tratta di persone incredibili, che hanno fatto parte di unità di combattimento e sono state testimoni di cose tremende. A partire da quel che hanno vissuto, si sono fatti carico delle proprie responsabilità. Quel che fanno è completamente controcorrente: in Israele l’opinione pubblica tende a non criticare quel che avviene nei Territori Occupati; si considerano le violenze palestinesi come una sorta di forza della natura, di cataclisma da cui è lecito proteggersi. Nessuno pensa alla tragedia sociale che vivono i palestinesi. Invece questi ex-militari hanno iniziato un percorso molto interessante. Una delle cose più toccanti che fanno è il tour di Hebron, la città dove si trovano le tombe dei patriarchi: portano comitive di israeliani a visitare la città, si gira per le vie, si vede come la presenza dei coloni israeliani ha condizionato la vita dei palestinesi, rendendola impossibile. Si è accolti nelle case dei palestinesi e si parla con loro. È un incontro molto forte, che riesce a cambiare il punto di vista di chi partecipa.
Crede che gli ex-militari israeliani possano avere un ruolo importante nel processo di riconciliazione?
In realtà spero che questo processo non sia lasciato nelle sole mani degli ex-militari. In Israele la politica è fatta solo da ex-militari: Ariel Sharon, Ehud Barak e Benjamin Netanyahu, ad esempio, sono ex-militari. Sarebbe utile che invece fossero i cittadini, spinti da un radicale senso di giustizia, a prendere in mano il processo di pace.
È possibile una qualche forma di collaborazione tra cinema israeliano e cinema palestinese?
Dal 2001 al 2006, cioè fino allo scoppio della seconda guerra libanese, con un collega israeliano riuscivamo a proiettare film palestinesi in un centro culturale di Tel Aviv. Poi però l’embargo ci ha impedito di proseguire. Adesso che la situazione è più tranquilla, vorremmo rilanciare l’iniziativa anche con film siriani e libanesi. Invece è davvero impossibile fare l’opposto, riuscire a proiettare film israeliani nei Territori Occupati.