Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Sani piaceri e inutili rinunce

Elena Lea Bartolini
15 luglio 2009
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A proposito di chi pensa che moltiplicando le mortificazioni si favorisca la santità della vita, la tradizione rabbinica ricorda che: «Nell’Al di là l’uomo dovrà giudicare ed apprezzare tutto ciò che il suo occhio vide, ma che egli non poté mangiare» (Talmud Palestinese, Kiddushin 66d). I Maestri di Israele, convinti che Dio desidera la felicità delle sue creature, insegnano che fuggire deliberatamente da un piacere fisico o da un benessere materiale può costituire un peccato. I piaceri della vita vanno accolti e goduti come doni divini: derivano infatti da ciò che è stato creato per la gioia dell’uomo e, proprio per questo, sono fondamentalmente buoni; pertanto non solo si invita a goderne, ma si condannano tutti coloro che se ne astengono.

Non è certamente un elogio della sregolatezza, bensì un richiamo ad uno stile di vita saggiamente equilibrato capace di valorizzare il «sano piacere» che deve essere gustato con tutte le proprie potenzialità. In altri termini: è importante camminare alla luce degli insegnamenti rivelati senza cadere in esagerate restrizioni o in astinenze non necessarie, come ben ricordato dal seguente passo talmudico: «Chi si impone dei voti di astinenza è come se si mettesse un collare di ferro intorno al collo; è simile a colui che innalza un altare proibito; è simile a colui che afferra una spada e se l’immerge nel cuore. Ciò che la Torah (insegnamento divino rivelato al Sinai) proibisce è già sufficiente per voi: non cercate di aggiungervi altre restrizioni» (Talmud Palestinese, Nedarim 41b). Si sottolinea in questo modo che la privazione di un bene terreno lecito, anche se finalizzata ad un scopo ritenuto buono, è comunque una scelta con cui l’uomo deliberatamente si priva di ciò che Dio gli offre, e per questo costituisce un «peccato verso se stessi». L’insegnamento rabbinico dunque, mostra perché e in che modo il godimento dei beni creati è una scelta positiva che corrisponde ai fini della creazione. Ne consegue che la vita del credente non può diventare una sorta di fuga dal mondo e dai suoi giusti piaceri, semmai deve ricercare la così detta «giusta misura».

In relazione a questo, la tradizione ha conservato una significativa narrazione che ha come protagonista Rabbi Shimon bar Jochai, vissuto verso la metà del II secolo dell’era cristiana e considerato l’autore dello Zohar, il Libro dello Splendore, opera fondamentale della Qabbalah, la mistica ebraica. Questo maestro fu costretto a nascondersi assieme a suo figlio in una caverna in seguito alle critiche da lui stesso mosse nei confronti dell’amministrazione romana. Rimase in tale nascondiglio per ben dodici anni durante i quali visse in maniera austera e lontano dal mondo finché, appreso che il sovrano era morto e il decreto di condanna revocato, decise di uscire. Vide degli uomini che aravano e seminavano, ed esclamò: «Dimenticano la vita dell’eternità e si occupano della vita che è transitoria». E dovunque egli e suo figlio volgevano gli occhi, il paese veniva subito consumato dal fuoco. Uscì allora dal cielo una Bath Qol, una «voce divina», e disse loro: «Avete lasciato la vostra caverna per distruggere il mio mondo? Tornateci!» (cf. Talmud Babilonese, Shabbat 33b).

«Occuparsi della vita», e di conseguenza dei sani piaceri che ne derivano, significa custodire il mondo di Dio creato e affidato all’uomo (cf. Gen 2,15 e 1,28-29), perché ne possa godere nella «giusta misura» indicata dalla Torah evitando inutili rinunce.

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