I quattro cancelli di ferro che si serravano all’imbrunire non si chiudono più da molto tempo e del muro che proteggeva l’insediamento rimangono solo alcuni tratti sbrecciati. Tuttavia i confini di Mea Shearim, il quartiere ultra-ortodosso ebraico di Gerusalemme, non sono svaniti. Tutt’altro. Invisibili sì, ma più possenti delle mura di una fortezza. Chi li oltrepassa, arrivando magari da una della tante moderne arterie stradali caotiche e rumorose costruite negli ultimi decenni nella città santa, ha la sensazione di ritrovarsi d’improvviso in un mondo e in un tempo lontani.
Mea Shearim non appartiene al XXI secolo e ad Israele: qui, tra i vicoli sporchi e stretti, in parte nemmeno asfaltati, le lancette degli orologi sono ancora sintonizzate sulla vita dei ghetti ebraici dell’Europa orientale, in qualche era indefinibile tra il Settecento e il primo Novecento. Chassidim (ebrei mistici, «pii») con i loro tradizionali cappelli neri, alcuni di pelliccia, calati in testa sia d’inverno che in piena estate, le lunghe barbe ricciolute, avanzano indossando i pastrani, come avveniva nel diciannovesimo secolo in Polonia. Gli studenti delle yeshiva (le scuole rabbiniche) hanno i visi pallidi di chi passa lunghe ore a studiare sui testi sacri dell’Antico Testamento, i capelli rasati con i due riccioli laterali. Le donne, seguite da veri plotoni di bambini, portano giacche e gonne lunghe, di colore scuro, i capelli avvolti in reti. I negozi appaiono usciti da foto d’epoca, piccoli e bui; le palazzine sono fatiscenti e sovrappopolate. Una media di tre persone per stanza, la densità demografica più alta di tutta Gerusalemme. Gli ultraortodossi, gli haredim (letteralmente «quelli che tremano» per timore di Dio) sono circa 103 mila in tutta la città santa; difficile stabilire quanti di loro vivano a Mea Shearim: certamente dal quartiere traboccano, come da un vaso stracolmo, verso i rioni vicini, il centro, persino verso i nuovissimi quartieri sorti sulle colline, a ridosso dei villaggi arabi.
Gli haredim di Mea Shearim appartengono a tradizioni diverse ma sono accomunati dal sentimento religioso di vivere una condizione di galuth (esilio), perché Dio stesso è in esilio fin quando non tornerà il Messia: solo allora si potrà costruire una patria per gli ebrei. Nel loro ghetto di Gerusalemme è difficile riuscire a trovare un interlocutore; per strada nessuno si ferma e i rabbini sono inavvicinabili. I non ebrei sono goim, gente di cui non fidarsi. In un androne di un centro di carità, il Rabbi Meii Baal Hanne’s Charities Kolel, un giovane studente yeshiva, Tzvi Rabin (nessuna parentela con l’ex primo ministro laburista) accetta di parlare del sentire comune che si ha nel quartiere. «Il nostro problema principale è l’esistenza dello Stato di Israele», afferma. «Non ha portato il benessere che aveva promesso. Al contrario viviamo in una situazione di perenne instabilità e angoscia. È questo – chiede polemicamente – il Paese sicuro per gli ebrei? Quanti altri conflitti? Quanti altri bagni di sangue?».
«Tutto ciò – osserva – avviene perché è stata contravvenuta la legge divina: l’esilio del popolo ebraico doveva finire, afferma la Torah, con il ritorno del Messia, e non con la creazione di uno Stato secolare».
Tzvi, come tutti i suoi coetanei di Mea Shearim si rifiuta di prestare il servizio militare. «Per noi è un grave peccato ammazzare in nome dello Stato sionista», afferma. Ma con Israele, non avete trovato anche voi una casa? «Niente affatto – risponde scuotendo la testa -. I nostri antenati vivevano qui, prima dello Stato ebraico, ed erano in pace con i loro vicini. Poi tutto è cambiato con l’arrivo dei sionisti».
Quasi tutti gli abitanti maschi di Mea Shearim trascorrono le loro giornate nelle preghiere e nello studio, contando sulla carità per sostenere le loro numerose famiglie; 7-8 figli per coppia sono la norma in questo quartiere.
Ogni azione, ogni momento della giornata quotidiana, il cibo, l’igiene, il riposo, il lavoro, la scuola, sono scanditi ineluttabilmente dalle regole solenni della Torah e diventano rituali sacri. Ogni straniero è un disturbo, ogni cambiamento rappresenta il Male. Il quartiere è tappezzato di manifesti che lanciano anatemi contro le piscine miste, contro la televisione, contro le donne scollacciate. In polemica con il Gran Rabbinato di Israele, colpevole di aver riconosciuto lo Stato sionista e di esserne complice, gli abitanti del quartiere gestiscono le proprie corti rabbiniche, le proprie macellerie kosher, i propri bagni di purificazione. A Mea Shearim si trovano cinquanta sinagoghe e una cinquantina di yeshiva, alcune con centinaia di studenti, altre con pochi bambini, magari inzeppati in una stanza a livello stradale.
I più estremisti tra gli abitanti del quartiere vedono il moderno Stato di Israele come un nemico, un abominio: non pagano le tasse, anche se poi vivono dei sussidi pubblici, e si rifiutano persino di parlare ebraico, perché una lingua sacra non può essere profanata in discorsi quotidiani o triviali; conversano in inglese se sono neo-immigrati dagli Stati Uniti o in yiddish se appartengono alle famiglie dei primi ebrei giunti dall’Europa; non votano. Tra loro vi è persino chi ritiene che la Shoah sia stata una punizione divina a causa dei tentativi dei sionisti di creare uno Stato secolare. Si tratta, ovviamente di voci isolate, però attive: nel 2006 una rappresentanza di questi rabbini si recarono a Teheran, poco prima che scoppiasse la guerra in Libano, per esprimere simpatia al nemico giurato di Israele, il presidente iraniano Ahmadinejad. I più moderati parlano ebraico, considerano lo Stato di Israele prematuro e comunque in mano a impostori e peccatori; però votano per i partiti confessionali ebraici: lo Shas (sefardita) e, soprattutto, l’Unione della Torah (ashkenazita) che, in cambio di sostegno al governo di turno in carica, ottengono sempre e comunque generose sovvenzioni alla scuole rabbiniche e sussidi per le famiglie. Un tempo, le due formazioni politiche seguivano una linea assolutamente neutrale in materia di sicurezza, interna ed esterna. Adesso si sono spostate su posizioni di estrema destra, pro-coloni e anti-arabe. Entrambe sono presenti nell’attuale governo Netanyahu: lo Shas ha ottenuto due ministeri pesanti, gli Interni e l’Edilizia (che avrà voce in capitolo sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania e Gerusalemme Est); per l’Unione della Torah, nel governone israeliano di 30 dicasteri, sono stati trovati due posti: uno strategico di vice ministro dell’Istruzione ed uno alla Sanità. E condizionano non poco la vita politica nazionale.