Ormai è chiaro: il tema cruciale del futuro prossimo in Medio Oriente è la questione degli insediamenti. Dopo l'amministrazione Obama nei giorni scorsi anche il cancelliere tedesco Angela Merkel si è pronunciata chiaramente per il blocco delle nuove costruzioni. Non era mai successo in passato che la comunità internazionale si dimostrasse tanto determinata su questo punto. Per questo sulla stampa israeliana su questo tema stanno scendendo in campo i pezzi da novanta.
Ormai è chiaro: il tema cruciale del futuro prossimo in Medio Oriente è la questione degli insediamenti. Dopo l’amministrazione Obama nei giorni scorsi anche il cancelliere tedesco Angela Merkel si è pronunciata chiaramente per il blocco delle nuove costruzioni. Non era mai successo in passato che la comunità internazionale si dimostrasse tanto determinata su questo punto. Per questo sulla stampa israeliana su questo tema stanno scendendo in campo i pezzi da novanta.
Su Yedioth Ahronot è uscito un articolo di Dov Weissglass. Nome poco noto all’estero, ma che in Israele conta assai. Weissglass è stato infatti il consigliere più fidato di Ariel Sharon. Soprattutto nel periodo tra il 2001 e il 2005 è stato il vero timoniere della politica estera dei governi guidati dall’anziano generale. Weissglass, dunque, è uno che sui rapporti con Washington non parla per sentito dire. E allora il suo articolo è molto interessante perché dice che gli accordi con l’amministrazione Bush sulla crescita degli insediamenti c’erano eccome. Dice addirittura a Hillary Clinton in quali faldoni del Dipartimento di Stato deve andare a cercare per trovarli. In pratica: c’era una versione a parole, quella della Road Map in cui l’amministrazione americana diceva che gli outpost dovevano essere smantellati. Inoltre apriva si la strada a un meccanismo di aggiustamento dei confini del 1967 per ricomprendere dentro il territorio israeliano i famosi «blocchi» degli insediamenti, cioè le zone più popolose che effettivamente sorgono proprio a ridosso della Linea Verde. Ma questo – sulla carta – era una posizione subordinata al raggiungimento degli accordi finali. Invece Weissglass spiega candidamente che – nei chiarimenti scritti bilaterali – l’intesa fra l’amministrazione Bush e il governo Sharon era stata un’altra: all’interno dei «blocchi» – dice il consigliere dell’anziano generale tuttora in coma – Washington aveva dato carta bianca alle nuove costruzioni. E dunque ora l’amministrazione Obama non può rimangiarsi quella parola.
Si tratta di una tesi decisamente opinabile dal punto di vista del diritto internazionale: non si vede perché un’amministrazione americana dovrebbe sentirsi vincolata su un tema del genere dalle decisioni di quella precedente. Ma il punto vero è un altro. Questo articolo ci dice quale sia la differenza vera oggi nei rapporti tra Washington e Gerusalemme. Non ci sono più codicilli stesi nelle segrete stanze o documenti che si possono tirare di qua o di là come una coperta. Congelamento degli insediamenti significa congelamento degli insediamenti. Senza foglie di fico come la cosiddetta «crescita naturale».
Perché l’articolo di Weissglass spiega anche un’altra cosa: i numeri sulla crescita degli insediamenti. Li ha ricapitolati molto bene qualche settimana fa con uno specchietto sul sito del Council for Peace and Security un altro grande esperto di questi temi: Shaul Arieli, generale a riposo che ha fatto parte del team negoziale dell’allora primo ministro Ehud Barak a Camp David nel 2000, di orientamento opposto rispetto a Weissglass. Numeri alla mano Arieli ha spiegato che dei 295 mila coloni che oggi abitano in Cisgiordania un terzo vi si è insediato nei 25 anni precedenti agli accordi di Oslo, un terzo negli otto anni del processo di pace e un altro terzo negli ultimi otto anni. Ancora più eclatante è il dato su Gerusalemme Est: il 45 per cento degli israeliani che abitano nella parte ex giordana vi si è stabilito dopo la firma degli accordi di Oslo, cioè mentre si rinviava la discussione sul futuro di Gerusalemme. Ora: solo chi crede alle barzellette può pensare che la spiegazione di questi numeri sia la «crescita naturale» degli insediamenti. La spiegazione – come scrive candidamente Weissglass – è che a Washington c’era qualcuno che, consapevolmente, chiudeva più di un occhio.
Detto questo – però – la questione dei «blocchi» rimane: è una pia illusione oggi pensare di spostare davvero 295 mila persone, evacuando tutti i coloni dalla Cisgiordania. Probabilmente è vero che ormai è ora di guardare dentro agli insediamenti e accettare l’idea che non sono tra loro tutti uguali. All’interno, però, di una cornice che sia chiara anche dal punto di vista della sostenibilità del futuro Stato palestinese. Da questo punto di vista segnaliamo un ultimo articolo interessante, tratto da Common Ground. Parla della visita che un altro ex presidente americano mai tenero nei confronti della destra israeliana – Jimmy Carter – ha compiuto nei giorni scorsi a Neve Daniel, uno degli insediamenti del Gush Etzion, cioè di uno di questi famosi «blocchi». Carter ci è andato per provare a capire quel punto di vista, che non è il suo. E ha fatto molto bene. La vera soluzione alla questione degli insediamenti può passare solo attraverso un pragmatismo intelligente, capace di coniugare i diritti legittimi dei palestinesi con quarant’anni di storia che ormai non si possono più cancellare con un semplice tratto di penna.
Clicca qui per leggere l’articolo di Dov Weissglass su Yedioth Ahronot
Clicca qui per leggere la tabella di Shaul Arieli sul sito del Council for Peace and Security
Clicca qui per leggere l’articolo sulla visita di Carter a Neve Daniel