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Anna Foa: io, la diaspora e Israele

13/07/2009  |  Milano
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Anna Foa: io, la diaspora e Israele
Anna Foa nella sua casa romana. (foto Dominik Cira)

Discendente di una delle famiglie ebraiche che più hanno contribuito alla storia civile e politica dell'Italia contemporanea, la storica Anna Foa (Torino, 1944) è tra i massimi esperti delle relazioni tra Chiesa cattolica ed ebraismo. Pubblichiamo ampi stralci di un'intervista, realizzata da Manuela Borraccino, che compare sul numero in uscita del bimestrale Terrasanta (luglio-agosto 2009). La professoressa ci parla della sua infanzia in una famiglia laica e della decisione, maturata in età adulta, di abbracciare l'ebraismo di suo padre. La conversazione tocca altri temi: Tel Aviv, l'esperienza della diaspora, i sofferti rapporti tra ebrei e cattolici, la diatriba su Pio XII.


Discendente di una delle famiglie ebraiche che più hanno contribuito alla storia civile e politica dell’Italia contemporanea, la storica Anna Foa (Torino, 1944) è tra i massimi esperti delle relazioni tra Chiesa cattolica ed ebraismo. Pubblichiamo ampi stralci di un’intervista, realizzata da Manuela Borraccino, che compare sul numero in uscita del bimestrale Terrasanta (luglio-agosto 2009).

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Tra i massimi esperti della storia dell’esperienza ebraica in Occidente ed in particolare del rapporto tra Chiesa cattolica ed ebrei, Anna Foa ha recentemente mandato in libreria il suo saggio Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento (Laterza, 2009): una potente ricostruzione, condotta con grande rigore scientifico, del cambiamento dell’identità ebraica dall’emancipazione, nella seconda metà dell’Ottocento, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
La incontriamo nella sua casa romana, in un appartamento ricolmo di libri affacciato sul Portico d’Ottavia. Un luogo carico di memoria per la comunità ebraica di Roma (la più antica della diaspora d’Occidente, con origini che risalgono al 70 a.C.): è qui che nel luglio 1555 papa Paolo IV decise di istituire il Ghetto, rinchiudendovi gli ebrei fino al 1870.

Cominciamo dalla sua infanzia. Come le è stata trasmessa l’identità ebraica?
Mia madre non era ebrea, eppure fin da bambina ho avuto una relazione stretta anche se non ritualizzata con l’ebraismo. La mia conversione formale è avvenuta dopo i 40 anni, al termine di un lungo periodo di studio e di esami sostenuti con l’allora rabbino capo di Roma, Elio Toaff. Perché l’ho fatto? Mi ero sempre considerata un’ebrea, ma quando mi accorsi che non ero considerata tale dalla comunità decisi di compiere questo passo, pur restando un’ebrea laica. Oggi non so se lo rifarei, ma allora evidentemente sentivo di avere un’identità debole, e volevo rafforzarla. Sono ebrea per parte di padre, e quella di mio padre era una famiglia laica, anche se il mio bisnonno era rabbino capo di Torino.

Come si è avvicinata ad Israele?
In famiglia non se ne parlava mai. Il mio rapporto con Israele è iniziato dopo i 40 anni, ed è stato anch’esso quasi una  «riconquista»: peraltro è sempre stato un rapporto piuttosto critico. Ho vissuto per più di 10 anni tra Roma e Haifa. In un certo senso sono rimasta «sul confine»: perché Haifa è una città viva e aperta, piena di luce, dove la convivenza fra ebrei e arabi è reale. Haifa, come Tel Aviv, è solare e occidentale. Gerusalemme è invece una città bellissima ma oppressiva, dove il fattore religioso si avverte in modo preponderante, soffocante.

Quali luoghi di Israele la colpiscono maggiormente?
Per me non c’è un luogo in particolare, ma un’atmosfera: Tel Aviv, così nuova e modernista, accoglie il visitatore con le sue case del Bauhaus, la sua struttura urbanistica geometrica, fatta di creatività e invenzione che colpisce chi, come me, si sente una cittadina europea e diasporica.

Che vuol dire essere «una cittadina europea ebrea e diasporica»?
Vuol dire sentirsi parte di quel mondo ebraico europeo, la diaspora,  che è stato all’origine tanto dell’ebraismo americano – un’altra diaspora, ma molto diversa da quella europea – tanto di Israele, lo Stato degli ebrei, quello dove gli ebrei hanno smesso di essere diaspora, minoranze fra le nazioni. Vuol dire ritenere che all’origine ci sia la diaspora. Vuol dire ritenere che senza la diaspora e i suoi apporti lo Stato di Israele sarebbe assai diverso da come è stato immaginato: un laboratorio di innovazioni e di aperture. Per me vuol dire sentir consistere il mio compito di ebrea nell’impegno nella diaspora, nella consapevolezza della profonda complementarità fra il mondo diasporico e Israele. Vuol dire sentire profondamente le mie radici europee e – perché no? – italiane.

Nei suoi libri ha documentato i soprusi, le violenze, le conversioni forzate imposte per secoli agli ebrei. Non le fa male documentare con tanta dovizia il passato?
Ma perché mai dovremmo studiare la storia, se non per vivere meglio il presente? Lo studio della storia, diceva Benedetto Croce, è sempre studio della contemporaneità. Il rapporto fra Chiesa cattolica ed ebrei è una delle chiavi di lettura privilegiate della storia ebraica in Europa perché è stata la Chiesa cattolica a sancire la diversità ed in un certo senso la «necessità teologica» dell’esistenza degli ebrei. Da parte del papato, quella che è stata esercitata sugli ebrei nei secoli passati è stata soprattutto violenza morale: il tentativo di mostrare come l’unica via d’uscita per loro fosse la conversione, in un clima di forte uniformità culturale, di grande omologazione del mondo esterno.

Si discute molto sul ruolo e sui silenzi di Pio XII durante la guerra. Che idea si è fatta?
Paradossalmente la leggenda «rosa» su papa Pacelli è nata in ambiente ebraico e quella «nera» in circoli cristiani: la leggenda rosa si riferisce all’aiuto (documentatissimo) dato da Pio XII agli ebrei e sul quale ormai la storiografia ha ben poco da dire perché molti fatti sono stati sviscerati e ci hanno dato un quadro esaustivo dell’impegno da parte della Chiesa. D’altra parte la leggenda nera non riguarda gli aiuti: è una leggenda politica, per così dire, sull’atteggiamento generale di Pio XII (pensiamo nel 1951 all’introduzione che François Mauriac scrisse al libro di Poliakov) ed esprime l’angoscia dei cattolici rispetto alla mancanza di una guida morale in un momento di gravissima crisi mondiale. Poi le cose si complicano con il coagularsi della «leggenda nera» nel 1963 intorno alla pièce di Hochhuth, Il Vicario. Penso che tutta questa polemica faccia di Pio XII un simbolo della lunga tradizione anti-giudaica «dell’insegnamento del disprezzo» – per dirla con Jules Isaac – della quale la Chiesa non è riuscita a liberarsi subito, nell’immediato dopoguerra. Ciò che si rimprovera alla Chiesa come autorità etico-religiosa è forse di non aver capito per prima cosa aveva significato la Shoah, di aver continuato ad agitare le vecchie formule anti-giudaiche per molti anni senza porsi alla guida di un movimento che stava nascendo… Penso ad esempio ai Punti di Seelisberg (nell’estate del 1947 si tenne a Seelisberg, in Svizzera, una conferenza internazionale alla quale parteciparono un centinaio di delegati cristiani di diverse confessioni ed ebrei, provenienti da una ventina di Paesi. Venne alla fine approvata una dichiarazione sul dialogo ebraico-cristiano conosciuta come I dieci punti di Seelisberg – ndr). Finalmente con il concilio Vaticano II tutto è cambiato. Ecco, questa esitazione post-Shoah forse ha pesato.

Come verrebbe accolta nel mondo ebraico l’eventuale beatificazione di Pio XII?
Non credo che spetti a noi ebrei dire ai cattolici chi debba essere o meno beatificato: certamente Pio XII è stato un pastore attento al popolo di Roma, e a Roma c’erano anche gli ebrei. Forse possiamo cercare di capire quale messaggio una eventuale beatificazione può dare sul piano del dialogo, dei rapporti fra cattolici ed ebrei, sul piano della ricostruzione comune della storia…

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