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Cinquemila persone in uno spazio chiuso dal muro. Una presenza incombente, in un luogo la cui storia parla di diritti negati. La solidarietà di Papa Benedetto al popolo palestinese e la speranza che possano presto cadere le barriere.

Un Papa al muro

Ilaria Pedrali
18 giugno 2009
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Un Papa al muro
Betlemme, 13 maggio 2009. Un bimbo palestinese osserva la cerimonia di benvenuto al Papa nel campo profughi di Aida. (foto F. Proverbio)

Ha scelto di fare visita anche al campo profughi di Aida, il Papa, nella sua unica giornata (il 13 maggio) in territorio palestinese. Un pellegrinaggio che ogni giorno di più è diventato una missione di pace.

In questo campo costruito nel 1948, vivono oltre 5 mila persone, di cui 14 famiglie cristiane. All’ingresso è posta una gigantesca chiave che esprime il desiderio di riappropriarsi delle case che 60 anni fa furono tolte al popolo palestinese dall’avanzata israeliana. È qui che Benedetto XVI ha incontrato i funzionari dell’Agenzia per il soccorso e il sostegno delle Nazioni Unite (Unrwa), che svolgono il loro servizio nei vari campi della zona. Ma soprattutto il Papa qui ha incontrato la gente.

Inizialmente l’incontro avrebbe dovuto svolgersi su un palco costruito a ridosso del muro che isola Betlemme da Gerusalemme, ma l’opposizione dei militari israeliani ha costretto a spostare l’evento nel cortile di una vicina scuola maschile gestita dall’Onu all’interno del campo. Il muro di sicurezza israeliano (o muro dell’Apartheid, come lo chiamano i palestinesi) ha comunque fatto da sfondo all’incontro.

Il Papa ha voluto salutare e ringraziare gli insegnanti, e soprattutto gli allievi, futuro di questo popolo. Proprio ai loro ragazzi e adolescenti gli abitanti di Aida hanno affidato il compito di rappresentare il dramma del proprio popolo con una danza tradizionale araba (il debke) e la declamazione appassionata di una poesia del poeta palestinese Mahmoud Darwish (deceduto lo scorso anno).

Si sono poi succeduti alcuni discorsi, tra cui quello del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che accompagnava Benedetto XVI.

Il presidente ha ringraziato il Papa «per il gesto generoso di venire ad Aida» e ha poi ricordato che generazioni di palestinesi sono cresciuti in campi simili, in una situazione di segregazione che è di tutta la realtà palestinese, soggetta ai controlli israeliani. Abu Mazen ha poi ricordato il sostegno della Santa Sede alla causa del suo popolo e sottolineato che questo viaggio papale giunge in un momento cruciale, un momento di distruzione che da parte israeliana procede a ritmo accelerato. Il presidente ha auspicato nuovi interventi per rilanciare i negoziati e l’iniziativa di Annapolis. Agli israeliani ha chiesto di abbandonare ogni politica di aggressione e di andare verso la coesistenza pacifica.

Anche ad Aida il Santo Padre ha ribadito quanto detto durante la mattina al suo arrivo a Betlemme al palazzo presidenziale: «Le vostre legittime aspirazioni a una patria permanente, a uno Stato palestinese indipendente, restano incompiute».

Tutte le speranze per un futuro di pace sono poste nelle nuove generazioni. Il Pontefice si è rivolto ai giovani – «Rinnovate i vostri sforzi per prepararvi al tempo in cui sarete responsabili degli affari del popolo palestinese» -, e alle famiglie: «Non mancate di sostenere i vostri figli nei loro studi e nel coltivare i loro doni, così che non vi sia scarsità di personale ben formato per occupare nel futuro posizioni di responsabilità nella comunità palestinese».

Dopo aver parlato degli strumenti di pace presenti sul territorio, in modo particolare ringraziando la presenza della famiglia francescana che si prende cura della gente di queste zone, il Papa ha toccato il tema del muro, dicendo che è «tragico» vedere che in un mondo in cui le frontiere sono sempre più aperte vengano eretti dei muri. Ha poi aggiunto che prega ardentemente perché finiscano le ostilità che hanno causato la costruzione di questo muro: «Da entrambe le parti del muro è necessario grande coraggio per recuperare la paura e la sfiducia, se si vuole contrastare il bisogno di vendetta per perdite o ferimenti». Ratzinger ha invocato lo sblocco dello stallo in cui si trovano le trattative di pace, anche con il vitale aiuto della comunità internazionale. Gli aiuti diplomatici, ha però ricordato, avranno frutto solo se supportati dalla buona volontà di israeliani e palestinesi a mettere fine al ciclo delle aggressioni.

Nella terra in cui i frati francescani custodiscono i luoghi santi il pensiero del Papa è andato proprio a san Francesco, rinnovando l’invito a un impegno per la pace, sull’esempio del santo di Assisi, «grande apostolo di pace e di riconciliazione».

Al termine dell’incontro, il Papa ha ricevuto vari doni tra cui una stola su cui sono raffigurate due grandi chiavi, simbolo insieme del ministero petrino e dell’anelito dei profughi a rientrare nelle case che dovettero abbandonare, e di cui ancora conservano le chiavi.

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