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Parsi: «L’Iran, un regime in crisi»

17/06/2009  |  Milano
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Parsi: «L’Iran, un regime in crisi»
Vittorio Emanuele Parsi

«Dal 1979 l'Iran ha avuto una straordinaria influenza politica nell'area circostante. Ma ora l'impressione è che siamo arrivati al limite, che il regime degli ayatollah non abbia più le forze per esercitare un'egemonia. E il modo in cui sono andate le elezioni è un segno chiaro della crisi del sistema, chiunque vinca. L'Iran che ne esce sarà comunque più debole e privo della classe politica forte di cui avrebbe bisogno in questo momento». A sostenerlo è Vittorio Emanuele Parsi, esperto di politica internazionale, editorialista e professore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. A lui abbiamo chiesto qualche prospettiva a breve termine per il Medio Oriente.


«Dal 1979 l’Iran ha avuto una straordinaria influenza politica nell’area circostante, Iraq, Libano, Afghanistan e Palestina. Ma adesso, dopo 30 anni, l’impressione è che siamo arrivati al limite, che il regime non abbia più le forze per esercitare un’egemonia. E il modo in cui sono andate le elezioni è un segno chiaro della crisi del sistema, chiunque vinca alla fine. L’Iran che ne esce sarà comunque più debole e privo della classe politica forte di cui avrebbe bisogno in questo momento».

A sostenerlo è Vittorio Emanuele Parsi, esperto di politica internazionale, editorialista e professore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. A lui abbiamo chiesto, nell’incertezza di queste ore legata all’esito delle elezioni iraniane, le prospettive per il Medio Oriente. Moussavi aprirebbe la strada alle speranze di pace?
«Il profilo reale di Moussavi è diverso da quello che ci rappresentiamo noi in Occidente – spiega Parsi -: in effetti è un conservatore moderato che, sulla politica estera, ha una posizione "poco difendibile in pubblico", per usare un eufemismo: recentemente ha anche affermato che, ammettendo pure che l’olocausto sia avvenuto, questo non può essere la giustificazione per l’esistenza dello Stato di Israele. Le preoccupazioni di Israele, poi, sono comunque legate al nucleare: il regime iraniano ha sempre negato di voler utilizzare il nucleare per scopi bellici ma non è molto credibile, e una conferma di questa poca credibilità l’abbiamo proprio guardando a come il regime sta trattando i suoi stessi elettori».

Il governo di Israele quindi rimarrebbe scontento, quale che sia l’esito delle elezioni.
Quello a cui guardano con interesse gli israeliani è piuttosto l’eventualità, auspicata e non impossibile, che il regime iraniano, proprio a causa di quel che sta succedendo in queste ore a Teheran, cambi in modo liberale. Israele credo abbia visto positivamente invece quello che è avvenuto alle recenti elezioni libanesi: Hezbollah, sostenuto dall’Iran, ha fatto il pieno di voti sciiti ma non di cristiani e sembra essere giunto ad un punto massimo di espansione; e questo è tranquillizzante.

Qual è il punto di vista dell’Autorità Palestinese sulle elezioni iraniane?
«L’Autorià palestinese si trova in un dilemma: Fatah sa infatti che l’Iran è un finanziatore di Hamas e quindi non è favorevole a questa leadership iraniana; d’altra parte il presidente Mahmoud Abbas sa anche che se cadesse lo spauracchio iraniano anche l’Autorità Palestinese avrebbe meno carte nel suo mazzo per avere appoggio di Stati Uniti e Unione Europea. Il cambiamento della situazione in Iran potrebbe avere però un lato positivo importante: potrebbe cioè convincere Hamas a raggiungere finalmente un compromesso con Fatah. Il vero problema, oggi, in Palestina,è proprio la spaccatura interna che la rende un interlocutore troppo debole per la pace.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, ostentano una prudenza estrema.
La possibilità che il regime crolli dopo queste elezioni esiste; e la cosa peggiore che Barack Obama potrebbe fare adesso è quella di appoggiare apertamente Moussavi. Un gesto simile segnerebbe la sua fine politica per l’opinione pubblica interna. D’altra parte, Obama non può neppure scaricare i giovani e i riformisti, che invece vedono con simpatia la sua leadership. Da qui la grande prudenza. Il vice presidente americano Joe Biden ha detto cose molto interessanti ultimamente: ha sostenuto che parlare con un interlocutore straniero deve essere fatto non per punire o premiare l’interlocutore, ma semplicemente perché è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. E successivamente ha aggiunto: qualsiasi sia il l’esito del voto, auspichiamo che sia l’espressione delle reali intenzioni del popolo iraniano. Questo dà forza a quanto detto da Barack Obama al Cairo, al suo tentativo di "sminare" l’uso politico della religione così radicato in Medio Oriente.

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