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Discorsi sul Medio Oriente. La parola ai palestinesi

23/06/2009  |  Gerusalemme
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Discorsi sul Medio Oriente. La parola ai palestinesi
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La «diplomazia dei discorsi» si arricchisce di un nuovo episodio, dove i protagonisti sono gli unici che, pur chiamati in causa dal discorso del presidente Barack Obama al Cairo, non si erano ancora espressi in maniera compiuta. Dopo Obama e soprattutto dopo la prolusione del premier israeliano Benjamin Netanyahu al Centro studi Begin-Sadat, lo scorso 14 giugno, ieri è toccato a Salam Fayyad, primo ministro di una Palestina dimezzata, concentrata nella sola Cisgiordania. Anche lui ha parlato dalla sede di un'università, per rivendicare, tra l'altro, Gerusalemme come capitale del futuro Stato e chiedere il congelamento degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi.


La «diplomazia dei discorsi» si arricchisce di un nuovo episodio, dove i protagonisti sono gli unici che, pur chiamati in causa dal discorso del presidente Barack Obama al Cairo, non si erano ancora espressi in maniera compiuta. Dopo Obama e soprattutto dopo la prolusione del premier israeliano Benjamin Netanyahu al Centro studi Begin-Sadat, lo scorso 14 giugno, ieri è toccato a Salam Fayyad, primo ministro di una Palestina dimezzata, concentrata nella sola Cisgiordania.

Il copione non scritto prevede una sede accademica, per dare più prestigio e anche più neutralità al discorso. Obama alla Cairo University con la sponsorizzazione di Al Azhar, il 4 giugno scorso, spariglia le carte. Netanyahu vuole seguire le orme di Obama, almeno in questo, e dare al suo discorso il crisma di un appuntamento storico: sceglie dunque l’ateneo di Bar Ilan, e un centro studi che porta (anche) il nome di Menachem Begin, il leader likudista che fece pace con l’Egitto. E ora Salam Fayyad, il premier che l’Occidente ama, ma che in queste ultime settimane sente il fiato sul collo di una situazione molto più volatile di prima: sceglie l’università di Al Quds, l’ateneo palestinese di Gerusalemme. Simbolica quant’altre mai, la scelta. L’università di Al Quds è a Gerusalemme, ma il campus di Abu Dis, quello scelto da Fayyad, è dall’altra parte del Muro di separazione. Come per dire, insomma, che Gerusalemme non può essere, come vuole Netanyahu, solo ebraica e solo israeliana. E per dire, anche, che Gerusalemme è tornata centrale, dopo la recrudescenza degli ordini di demolizione consegnati a molti abitanti palestinesi della città santa dalle autorità municipali israeliane.

È per questo che uno dei passi importanti del discorso di Fayyad è proprio su Gerusalemme est. Che sarà sempre la capitale dello Stato palestinese, dice. Fayyad sostiene che costruire uno Stato potrebbe essere possibile entro due anni, e che quindi bisogna rimboccarsi le maniche ed essere pronti. La questione, dunque, è capire cosa i palestinesi intendano per Autorità Nazionale Palestinese, per Fayyad, che – rivolto agli israeliani – conferma che i negoziati potranno riprendere solo nel momento in cui Israele congelerà gli insediamenti in Cisgiordania.

Il tempo stringe, dunque. Non solo perché il discorso di Barack Obama è stato un masso lanciato nelle acque stagnanti del conflitto israelo-palestinese. Non solo perché Fayyad ha parlato alla vigilia del piccolo ma importante tour europeo di Bibi Netanyahu, atteso oggi a Roma e poi a Parigi, dove giovedì dovrebbe anche incontrare uno dei protagonisti della nuova strategia americana in Medio Oriente, l’inviato speciale di Obama, George Mitchell. Il tempo per Fayyad stringe anche perché si avvicina l’ennesimo appuntamento per sanare la frattura tra Fatah e Hamas, esattamente a due anni dal colpo di mano del movimento islamista a Gaza che ha spaccato la Palestina in due spezzoni, la Cisgiordania dell’ANP e la Gaza del Movimento di resistenza islamico.

Dopo il discorso di Obama al Cairo, l’attivismo egiziano si è intensificato; gli incontri – anche ad alto livello – si sono fatti più intensi; le pressioni per una riconciliazione e, magari, un governo di unità nazionale sono più forti. Jimmy Carter ha incontrato di nuovo Khaled Meshaal, che sempre più sta accentrando attorno a sé il potere dentro Hamas, ed è andato a Gaza per vedere di persona le distruzioni dell’Operazione Piombo Fuso, quella compiuta da Israele lo scorso dicembre e gennaio. Col cambio di amministrazione a Washington, e nonostante Carter tenga a precisare che è un privato cittadino, il suo ruolo assume una caratura diversa, e lo dimostra la presentazione, ai dirigenti di Hamas, di una sua iniziativa personale, che possa superare l’impasse: nulla trapela dei dettagli, ma qualcosa – è evidente – è stato messo sul piatto. Ben oltre la diplomazia dei discorsi.

Sinora, dopo quasi venti giorni dal discorso di Obama al Cairo, sono ancora quelle parole a rappresentare il cambio di passo in Medio Oriente. Sia Netanyahu sia lo stesso Fayyad sono stati costretti semmai a inseguire il presidente Obama e a riproporre, almeno nella logistica, lo schema proposto dall’inquilino della Casa Bianca: nero su bianco, di fronte alle telecamere, entrambi hanno dichiarato in pubblico quello che intendono fare. Quel che c’è di diplomatico nei discorsi, però, si interrompe qui, e da qui riprende la diplomazia vecchio stampo. È questa diplomazia che sta lavorando, ora, oltre il discorso di Netanyahu e di quello, ultimo, di Fayyad. Lo testimonia l’ultimo tour nella regione di George Mitchell, quasi contemporaneo alla presenza di Jimmy Carter in Medio Oriente. Ma soprattutto lo testimoniano i piccoli passi di Hamas e Fatah sulla questione dei militanti arrestati da una parte e dall’altra, vero nodo del contendere di queste ultime settimane.

Il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas, che è tornato anche a parlare con il capo dello Stato siriano Bashar al Assad a Damasco, ha ordinato ai suoi servizi di sicurezza di liberare i detenuti di Hamas in Cisgiordania, dopo l’aumento delle retate nelle settimane recenti. Non è dato sapere quanti saranno liberati, né quando, ma il segnale è importante per ammorbidire i toni, visto che la riunione tra le fazioni palestinesi potrebbe anche essere anticipata, e svolgersi alla fine di giugno al Cairo. Non è detto che questa volta il tentativo di riconciliazione riesca, ma gli egiziani stanno premendo molto, e lo dimostra la presenza (rara) qualche giorno fa, di Khaled Meshaal al Cairo, mentre l’altroieri il suo vice, Moussa Abu Marzouq era invece in Yemen.

La riconciliazione, dunque, sta ritornando centrale, nella discussione palestinese. Molto di più di quanto lo sia stato il discorso di Bibi Netanyahu all’università di Bar Ilan, al Centro studi Begin-Sadat. Le sue parole hanno avuto lo strano potere di mettere insieme, per poche ore, le fazioni contrapposte della politica palestinese, unite nello stigmatizzare tutto il discorso del leader del Likud. Dai laici agli islamisti, tutti, nessuno escluso, hanno condannato le parole di Netanyahu, considerate offensive, razziste, un passo indietro nella possibilità della ripresa del dialogo. È come se il discorso del premier israeliano fosse stato messo tra parentesi dai palestinesi, che hanno continuato, semmai, a discutere dell’altro discorso, «Il Discorso», quello di Obama. La piattaforma è quella, ormai, anche se per ora sono parole.

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