Aharon Appelfeld, scrittore israeliano già noto al pubblico italiano, torna con questo romanzo a sondare la propria memoria, la memoria di un bambino nella Shoah, sopravvissuto allo sterminio per il fatto d'essere biondo e per essere riuscito a fuggire a dieci anni dal campo di concentramento, vagando per le foreste per tre lunghi anni, fino alla conclusione della guerra. L'Autore torna nei boschi della sua fuga solitaria raccontando le vicende della piccola Tsili, così vicine alle sue. E intanto cerca di rispondere alla domanda di una vita: quale antidoto per proteggersi dall'odio e dalla violenza quando sono ciechi e indiscriminati?
Una bambina ebrea, sola, vaga nei boschi dell’Europa orientale mentre attorno a lei si scatena la violenza della guerra e dell’odio razziale. Tsili, fragile nel corpo e nella mente, viene abbandonata dalla sua famiglia in fuga, nella certezza che «a una bambina piccola e fragile nessuno avrebbe fatto del male e, in attesa che passasse la tempesta, lei avrebbe sorvegliato la proprietà».
Aharon Appelfeld, scrittore israeliano già noto al pubblico italiano, torna con questo romanzo a sondare la propria memoria, la memoria di un bambino nell’Olocausto, sopravvissuto allo sterminio, come lui stesso afferma, per il fatto di essere biondo e per essere riuscito a fuggire a dieci anni dal campo di concentramento, vagando per le foreste per tre lunghi anni, fino alla conclusione della guerra. Appelfeld aveva già raccontato «frammenti di memoria e riflessioni» nel libro autobiografico Storia di una vita (Guanda, 2008), nel «tentativo disperato di ricollegare le parti diverse delle mia vita alla radice da cui sono germogliate».
Ora l’Autore torna nei boschi della sua fuga solitaria, ma lo fa con un intento diverso: certo è la sua vita interiore cui attinge per raccontare le vicende di Tsili, così vicine alle sue, ma è come se volesse operare una riflessione dall’esterno. Come se volesse implicitamente rispondere alla domanda di una vita: quale antidoto per proteggersi dall’odio e dalla violenza quando sono ciechi e indiscriminati, quando i bambini non contano e «sono paglia calpestata da tutti»? Tsili era piccola e smunta e crebbe abbandonata a se stessa, fra il pattume in cortile, e «diversamente dai suoi correligionari, non era brava a scuola» al punto che le viene data un’istruzione religiosa perché si pensa che sia l’unica cosa che le si possa insegnare, perché è un poco ritardata. Così facendo, teneva viva la fiammella della fede nella casa dei genitori, dove non si pregava né si osservava il sabato.
Ma la forza di Tsili sta proprio nella purezza e nell’innocenza che la pongono all’ultimo posto della gerarchia familiare e sociale, oltre ogni convenzione. Nel suo vagare Tsili riesce ad affrancarsi con un inconsapevole (almeno all’inizio) escamotage: si presenta come «figlia di Maria», cioè figlia dell’amore illecito di una nota prostituta della zona. E Appelfeld spiega così la sua scelta: «Il fatto che venga chiamata "la figlia di Maria" ha un significato ambiguo. Perché è vero che Maria era una prostituta della zona, ma è anche vero che dicendo che è figlia di Maria si vuol anche dire che era figlia della Vergine Maria: c’è un’aria di divino intorno a lei».
In Storia di una vita, Appelfeld descriveva sé stesso nei boschi come «un minuscolo animale… Pensieri e sentimenti si restrinsero molto… a volte mi assaliva un doloroso stupore ma svaniva con i vapori della foresta, e l’animale che era in me tornava ad avvolgermi nella sua pelliccia». A Tsili avviene qualcosa di diverso: diventa in qualche modo protagonista della sua vita. Bada a sé stessa e ad altri. E quando incontra Marek, fuggito dal campo di concentramento e tormentato dal senso di colpa per aver abbandonato la moglie e i due figli ancora vivi, Tsili diventa un rifugio e un’occasione di redenzione: «Se si vince la paura tutto sembra diverso… adesso sono un uomo libero».