Non vendetta, ma giustizia. Il primo marzo ha preso il via all’Aja il Tribunale speciale per il Libano che subenta alla Commissione internazionale indipendente d’inchiesta che ha lavorato per oltre tre anni sull’assassinio dell’ex premier Rafic Hariri. All’inaugurazione dei lavori, il cancelliere Robert Vincent ha chiesto un minuto di silenzio per le vittime dell’attentato. «In fin dei conti, non siamo qui per le Nazioni Unite né per la comunità internazionale – ha detto -. Non siamo qui per gli autori dei crimini, ma per le vittime». Da parte sua, il procuratore generale Daniel Bellamare ha assicurato che l’inchiesta non sarà influenzata – come insinuano molti – dalla politica, bensì governata dai principi giuridici. «Nessun fattore esterno – ha detto Bellamare – avrà un’influenza sui risultati: non deporrò mai un atto di accusa per compiacenza». Il Tribunale è incaricato dall’Onu di dare un nome ai responsabili dell’attentato del San Valentino 2005, ma anche di una decina di altri attentati in cui hanno perso la vita altrettanti politici e giornalisti libanesi, molti dei quali avevano giocato un ruolo chiave nella «Rivolta dei cedri» seguita all’assassinio di Hariri.
Nella stessa palestra dove fino a qualche tempo fa l’intelligence olandese giocava a pallacanestro, si giocherà così una serrata partita contro mandanti, pianificatori ed esecutori di questi attentati. Nel palazzo non ci sono ancora sedie, né banco degli imputati, né giudici, né presidente. L’avvio ufficiale dei lavori non coincide quindi con l’inizio del processo vero e proprio perché non ci sono ancora imputati e le indagini sono in corso. Ciononostante, l’atto di nascita ufficiale del Tribunale segna una svolta nella storia del Medio Oriente in cui l’impunità l’ha sempre fatta da padrona sia nel rapporto tra Stati sia nel rapporto governanti-cittadini. Il Libano (con ovvie implicazioni per tutto il Medio Oriente) si aggiunge così all’elenco dei Paesi toccati dalla mano della giustizia internazionale: ex-Jugoslavia, Ruanda, Sierra Leone, Cambogia e (speriamo presto) Sudan.
Il processo sarà ovviamente lungo, da tre a cinque anni, e si svolgerà dinanzi a undici giudici, di cui quattro libanesi. Punto di partenza sono i lavori della Commissione d’inchiesta alla cui presidenza si sono susseguiti il tedesco Detliv Mehlis, il belga Serge Brammertz e lo stesso Bellemare. Tutte le persone che erano state fermate in Libano nell’ambito dell’inchiesta sono state rilasciate, tranne quattro ex generali che all’epoca si trovavano a capo della sicurezza e dell’intelligence. Gli investigatori delle Nazioni Unite non si lasciano scappare nomi di possibili imputati, ma Bellemare, convinto che il caso possa essere risolto, ha invitato ad avere pazienza. Il procuratore capo ha già chiesto alle autorità di Beirut di trasferire sospettati e documenti all’Aja. I generali, tutti legati alla Siria negli anni in cui Damasco esercitava una ferrea tutela sul Libano, saranno tenuti nella prigione speciale di Scheveningen, la stessa dove sono attualmente detenuti altri alti responsabili accusati di crimini di guerra, come l’ex-presidente della Liberia Charles Taylor e l’ex leader dei serbi di Bosnia, Radovan Karadzic.
Al di là del pronunciamento finale dei giudici, il «processo Hariri» non mancherà di avere ripercussioni politiche nell’immediato futuro. Il Libano si prepara alle elezioni legislative del 7 giugno in un clima di duro confronto tra due schieramenti opposti: da una parte, la coalizione «Forze del 14 marzo», filo- occidentale e sostenuta da Egitto e Arabia Saudita, e quella dell’ «8 marzo», vicina all’asse Damasco-Teheran. Il timore è che l’atto d’imputazione possa arrivare poco prima della scadenza elettorale, infiammando così una situazione già esplosiva.