Nel numero scorso abbiamo parlato dello «spirito d’Assisi», nato dall’incontro interreligioso promosso da Giovanni Paolo II il 27 ottobre 2006 nella città umbra. Stavolta vorrei soffermarmi sui suoi rapporti con il dovere missionario, termine mal compreso e che non gode di buona stampa in ambito musulmano.
A molti credenti, cristiani e non, lo spirito d’Assisi e il dovere missionario paiono incompatibili. Non è necessario fare tutto il possibile perché l’altro sia salvato? Come conciliare questo spirito d’Assisi con l’evangelizzazione?
Non si tratta di abbandonare la convinzione di fede che ci fa dire, con la Scrittura, che «Gesù è l’unico Mediatore». È solo grazie a Cristo che ogni essere umano diventa figlio adottivo del Padre. Ma occorre anche vivere quella parola di Gesù che dice: «Se salutate solo i vostri fratelli», non siete ancora miei discepoli.
Con la nostra vita sempre e con la parola ogni volta che ciò è possibile noi dobbiamo offrire il gusto della fede cristiana nella sua totalità, ma noi siamo inviati anche a coloro che non possono accettare la nostra proposta. L’incontro e, se possibile, il dialogo sono parte integrante della missione e non un’alternativa ad essa. L’incontro e il dialogo non hanno come obbiettivo, palese o nascosto, la conversione al nostro credo, bensì, allo stesso titolo delle opere caritative, quello di mostrare che l’amore per tutti è una necessità della nostra fede. Si obietta che il dialogo dev’essere un dialogo di salvezza e che i pionieri della nuova mentalità si situerebbero non contro ma sull’altro versante della frontiera della fede. Tale affermazione è inesatta. Siamo proprio entro il nostro «essere inviati». In Matteo 10, 40-42, si dice che la salvezza è assicurata dal bicchiere d’acqua donato a un discepolo di Gesù: «Chi accoglie voi accoglie me». Dunque bisogna lasciarsi accogliere.
Gesù non è per il proselitismo. Troppo spesso si è basata la missione sul finale del Vangelo di Matteo o di Marco, focalizzandosi sul battesimo. In effetti, occorre guardare a tutto il comportamento del Cristo, sottolineando anche come egli abbia lamentato il proselitismo dei farisei (Mt 23,15), abbia impedito all’abitante di Gerasa di diventare suo discepolo (Lc 8,38-39), si sia arrabbiato con Giacomo e Giovanni e non con il villaggio samaritano che si rifiutava di accoglierli (Lc 9,52-56). Non bisogna nemmeno dimenticare la grande Preghiera per l’unità. Anch’essa dev’essere presa in considerazione come fonte della missione. L’unità, se non di dottrina almeno d’amore, è necessaria per andare insieme incontro alle altre religioni.
Molti tra i non cristiani non sopportano il vocabolo «missionario» perché talvolta è sinonimo di predicatore in acque torbide. Così ci sono musulmani che avallano, ahimè, il proselitismo da parte loro, ma non lo tollerano negli altri e gruppuscoli cristiani che non esitano a far violenza alla cultura degli altri per strapparli a un inferno che sarebbe immancabilmente destinato a chi non fa parte della loro setta. Siamo agli antipodi dello «spirito d’Assisi», il quale invece che restringere il campo della missione, consente semmai di allargarlo.
La missione, che deriva dal vocabolo «inviare», è l’annuncio, prima ancora che di un Credo degno di venerazione, di Colui che vuole la nostra felicità. Il cuore della nostra fede non è in un libro, foss’anche il più santo, ma in una persona. La missione è l’esperienza dell’amore condiviso in nome della nostra fede trinitaria in un Dio Padre e amore, Verbo incarnato e Salvatore, Spirito che ci precede nell’altro.
Lo spirito d’Assisi è rifiuto del ghetto a beneficio della proposta, negazione del disprezzo a favore del rispetto, rigetto della guerra santa per la conversione personale e la fraternità. Questa fraternità oltre le mura ci allontana dalle esclusioni e ci conduce all’incontro con lo Spirito di Dio che ci attende in fondo all’uomo. E ogni volta che allarghiamo il cerchio della fraternità, lasciamo uno spazio più grande al nostro Dio.